- Società italiana di storiA della filosofia - 

MATERIALI PER LO STUDIO DELLA STORIOGRAFIA FILOSOFICA

Ricerca svolta dall'Università di Genova (con il contributo del MIUR)

Coordinatore: Luciano Malusa (Università di Genova)

         
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Luciano Malusa  

     
 

 

Vincenzo Gioberti e le dimensioni “europee” dell’ontologismo

nel secolo XIX

 

1. Gioberti e le vicende dell’ontologismo tra Seicento ed Ottocento.

La grandezza dell’apporto di Vincenzo Gioberti alla storia del pensiero filosofico dell’Ottocento si lega alla ripresa di un modo di pensare la ricerca della verità come legame stretto e indispensabile alla divina creazione. Negli anni cruciali della crisi del pensiero trascendentale in Germania e del lento affermarsi della mentalità positivistica, congiunta ai progressi delle scienze sperimentali e delle tecniche (1830-1850), questo geniale e complesso pensatore italiano ha proposto un nuovo tipo di filosofare, in grado di collegarsi allo sviluppo della religione cristiana, vista essenzialmente come “Rivelazione”. Indubbiamente il successo delle sue opere è legato alla stagione delle aspirazioni all’indipendenza nazionale italiana; quindi la relativa eclissi della conoscenza e della fruizione delle opere, con il conseguente oblio delle dottrine principali professate negli anni della passione per l’indipendenza, si spiegano benissimo. Però, se si riesce a prescindere dalle valenze politiche, innegabili, di molte affermazioni del pensatore torinese, si scoprono importanti prospettive. Il legame stretto tra ritmi della creazione divina e ritmi della rivelazione, l’affidare al pensiero umano, nel suo rapporto con Dio inteso come Essere Ideale e Reale insieme, un compito rilevante nell’ambito del creato: ebbene, tutti questi sono motivi di rilievo nella panoramica europea dell’Ottocento. Di queste sollecitazioni, però, la più accolta e discussa, sviluppata o rigettata, fu quella relativa all’intuito da parte della mente umana dell’Essere creatore. Gioberti, in questo caso, riaprì, si può ben dire, una via che sembrava essersi chiusa nel Settecento, con l’appassionata difesa di Malebranche da parte del cardinale Giacinto Sigismondo Gerdil. Gioberti rivalutò la dottrina dell’intuito delle idee in Dio, affidando ad essa il compito di sostenere i tentativi di costruire un idealismo della creazione ed una dottrina dello sviluppo storico in grado di superare la filosofia trascendentale.

Penso che come introduzione a Gioberti in questo Convegno sia utile innanzitutto ragionare sul termine “ontologismo”, coniato proprio dal nostro filosofo, e sul fatto che anche oggi se ne parla in un contesto di “rivalutazione” di un insieme di prospettive del pensiero cristiano. Penso anche che sia bene, sempre in questa sede di presentazione del pensatore nel valore intrinseco delle sue tesi innanzitutto metafisiche, presentare le vicende della sua “fortuna” relativamente al secolo XIX, nell’ottica proprio delle reazioni suscitate dalla proposta ontologistica. Naturalmente questo significherà un riferimento robusto alle vicende che accompagnarono Gioberti negli ultimissimi anni della sua breve esistenza, con le due condanne che egli ebbe a subire da parte della Chiesa cattolica, una per il Gesuita moderno ed un’altra per l’intero corpus dei suoi scritti. Una domanda è d’obbligo: quali furono gli effettivi argomenti teologici che portarono alla condanna delle sue opere, avvenuta nel 1852, da parte delle Congregazioni romane del Santo Uffizio e dell’Indice? Avendo potuto riscontrare presso gli archivi della Congregazione romana per la Dottrina della Fede, ora aperti agli studiosi, tutti i passi che sono stati compiuti verso la condanna del 14 gennaio 1852, mi pare di essere in grado di verificare fino a quale punto da parte delle autorità romane la prospettiva ontologistica fu tenuta nel conto di dottrina erronea.

Fin d’ora posso sostenere, anticipando i risultati della mia ricerca, che è problematica l’affermazione di coloro i quali attribuiscono semplicemente all’ontologismo i motivi della condanna romana. La questione è complessa, e va vista nell’ottica di un’evoluzione degli atteggiamenti ufficiali della Chiesa nei confronti di una dottrina che nessuno si era mai sognato di condannare nel Settecento, quando Gerdil aveva chiaramente riproposto il modo malebranchiano di intendere la ricerca della verità e di concepire la conoscenza intellettiva. Oserei dire che il problema circa la considerazione dell’ontologismo come errore condannato dalla Chiesa sia ancora aperto, nonostante il fatto che la famosa condanna, da parte del Santo Uffizio, di sette proposizioni ritenute appunto il distillato dell’ontologismo sia arrivata, il 18 settembre 1861, a dire a chiare lettere che, da qualunque parte in Europa, da qualunque cattedra di filosofia o teologia venissero propugnate, esse erano erronee [1].

Le tematiche collegate all’ontologismo appaiono oggi, nel pensiero italiano e non solo, in ripresa rispetto all’oblio che le aveva colpite alla fine dell’Ottocento, dopo tale condanna. Eventi rilevanti per la Chiesa cattolica, come l’enciclica Aeterni Patris (1879) e la condanna delle quaranta proposizioni rosminiane, con il decreto Post obitum (1887), avevano ribadito l’ostracismo a qualunque tipo di considerazione della conoscenza come intuizione della divina essenza creatrice. L’oblio per questa corrente filosofica era stato per un certo periodo superato grazie a due pensatori italiani con i quali si erano riprese le fortune dell’“idealismo oggettivo”: Pantaleo Carabellese [2] e Teodorico Moretti Costanzi [3]. A loro si potrebbe aggiungere Giulio Bonafede, che si era sempre definito “giobertiano” [4]. Nonostante la netta prevalenza di prospettive d’altro genere nelle vicende attuali del pensiero filosofico, cristiano e non (nichilismo, filosofia analitica, pensiero ermeneutico, pensiero epistemologico), si è notata poi in questi ultimi anni una certa attenzione per il termine “ontologismo”, e si sono sentite rilevanti opinioni circa la perennità della tematica dell’intuito abituale dell’essere nell’atto creativo divino. Un rinnovato interesse per tutto quanto si collega al termine è stato provocato delle riflessioni di Augusto Del Noce [5]. Giuseppe Riconda, ispirandosi alle pagine delnociane, ha rivalutato argomentazioni e proposte che sembravano ormai consegnate al solo interesse degli storici, e anche di quelli del tutto “antiquari” [6].

Trovo significativa la circostanza che, a livello ontologico e metafisico, vi siano oggi dei filosofi che tornano ad occuparsi d’una prospettiva che pareva ormai tagliata fuori dal circuito delle dottrine che contano. Ma la storia della filosofia conosce da sempre cadute e riprese, insuccessi e successi, dimenticanze e ritorni. L’ontologismo conosce anch’esso questa altalena di evidenziazione delle sue posizioni, di scomparsa momentanea di esse, e di ripresa di studio e discussione. Mi sembra che l’attuale ripresa abbia un suo intrinseco significato. La crisi della metafisica, con la conseguente sostituzione delle tematiche ontologiche legate alla metafisica con tematiche inerenti la condizione dell’esistenza, o l’interpretazione, provoca l’acuta “nostalgia” per atteggiamenti dello spirito che in un certo senso compensino questa perdita di interesse. L’affermazione che l’uomo, nella facoltà del suo pensiero, o intelletto, coglie naturalmente, ma per via intuitiva, l’essere, quell’essere di cui, nel pensiero contemporaneo, si è sentenziato l’oblio o comunque l’insussistenza come oggetto “disponibile”, mi sembra il frutto di un’intenzione rilevante: ritornare ad un significato “forte” di essere, il significato che dall’antichità al pensiero cristiano è stato attribuito a Dio, come “Essere di per sé sussistente”. Quest’Essere realissimo, che ha le caratteristiche, nel pensiero cristiano e non solo, di creatore, si manifesta come la causa prima di un moto di consenso e di affermazione della verità da parte della creatura intelligente. L’Essere assoluto ed infinito, reale e insieme ideale, perché Essere e Pensiero insieme, è tale anche nel modo della comunicazione di sé al soggetto umano come entità intelligibile. L’ontologismo “ritornato” insiste soprattutto sulla condizione dell’uomo come ente che non solo pone in questione se stesso e si orienta verso una progettualità totale, ma che anche interroga se stesso in quanto ente volto alla verità, costituito per essa.

La ripresa di una metafisica dell’intuizione dell’Essere dovrebbe significare il manifestarsi di una tendenza importante: nel pensiero umano si delinea, rendendosi sempre più plausibile ed accettabile, una concezione che non attribuisce all’essere una totalità ed un’eternità che escludano il rapporto creatore-ente ed il rapporto conoscitivo tra intelligibile sommo e soggetto intelligente. La confutazione del monismo di stampo neo-parmenideo, che oggi passa per una delle poche prospettive metafisiche serie, può svolgersi attraverso altre logiche che non siano quelle del principio di non contraddizione o di ragion sufficiente: una di questa riguarda la netta distinzione di creatore e creatura, e l’attribuzione alla creatura intelligente ma finita di una capacità naturale di essere orientata alla verità. Quest’ultima è sì il rapporto tra intelligenza e realtà, ma è anche ontologicamente la comunicabilità dell’Essere creatore alle creature, il dono libero da parte della Divinità della luce del proprio pensiero all’essere pensante creato. L’identificazione assoluta di essere e pensiero, tipica di ogni prospettiva monistica, a partire da quella parmenidea, fino a Spinoza e ad Hegel, viene contestata nel nome di una realtà che crea e che pone un rapporto di dipendenza ma insieme anche di interazione tra creatore e creatura: l’essere si comunica necessariamente al pensiero, ma non ne annulla le capacità, rendendolo anzi autonomo e singolarmente idoneo a pensare e volere.

Augusto Del Noce, nella sua opera Il problema dell’ateismo [7], ha asserito esservi da Cartesio, il padre del pensiero moderno, una duplice derivazione dottrinale: una via ortodossa e trascendente, che sviluppa le novità poste dal pensatore francese in senso ontologistico; ed una via eterodossa ed immanente, che si sviluppa attraverso Spinoza, il razionalismo, e che conduce all'ateismo, specialmente nella versione del marxismo, con cui si annulla ogni forza del pensiero costruttivo. In fondo Del Noce ha adattato alla sua interpretazione della “riforma cattolica” e del pensiero moderno la tesi di Gioberti, di una duplice linea della storia del pensiero, la “filosofia della creazione” e la “filosofia dell’immanenza”, o “panteismo” [8]. Se Gioberti individua lo sviluppo della filosofia della creazione fin dai primordi dell’umanità, nel pensiero che si mantiene fedele alla Rivelazione, pone invece l’accento sul rafforzamento del pensiero eterodosso avvenute nell’ambito della posizione di Descartes (che viene tuttavia caricata di un significato assolutamente negativo). La tesi del “suicidio dell’ateismo” come tendenza incapace di sorreggersi speculativamente aveva interessato molto Del Noce, intento come era alla negazione della cultura marxista, vista come la summa del moderno immanentismo, in un certo senso la dissoluzione del razionalismo, e lo aveva indotto, almeno in un primo tempo, a lasciare quasi sullo sfondo l’altra tesi, di una via “ortodossa” del pensiero moderno, quella che passa per Malebranche, Vico, Gerdil, Gioberti e Rosmini. In realtà questa tesi, tra l’altro proposta da Del Noce nella voce Ontologismo dell’Enciclopedia filosofica [9], sembra più fondata e suggestiva dell’altra, egualmente rilevante, ma forse più legata alla contingenza del momento storico, che induceva a identificare immanenza e marxismo. La tesi delnociana di una specie di via maestra dell’ontologismo “moderno” risultò tuttavia bisognosa di integrazioni. La più rilevante, apparve ben presto quella, del resto riconosciuta anche dal filosofo torinese, della necessità di tenere conto che l’ontologismo, sia pure inteso nel significato generico attribuitogli nel Problema dell’ateismo, affonda le sue radici nel pensiero antico, e certamente, per ciò che riguarda il pensiero cristiano, nasce dalle posizioni di S. Agostino e S. Bonaventura.

L’incompleta ricostruzione storica della tradizione ontologistica si spiega in Del Noce a motivo della sua urgenza di mostrare la parabola del pensiero moderno, nato nel segno dell’ambiguità del cartesianesimo, capace di offrire strumenti per riformare e rafforzare la concezione della trascendenza e della spiritualità, ma capace insieme di avviare un processo di immanentizzazione della ragione pericoloso per la stessa convivenza sociale dell’Occidente, e per la stessa dignità della persona. Ma proprio l’aver posto in Cartesio gli elementi per una svolta fondamentale nella storia del pensiero contribuisce a richiamare gli autori che Cartesio stesso utilizzò nella sua ricerca di un punto fondamentale per la sua riforma del pensiero: Agostino campeggia come il primo filosofo che il pensatore francese ebbe presente nell’indicare tanto il processo metodico del dubbio quanto la trasparenza della ragione a se stessa e la sua fondatezza entro una veracità divina, superiore alla coscienza finita dell’uomo. Secondo Del Noce la riforma cartesiana valorizza appieno l’indicazione della tradizione iniziata da S. Agostino, quella cioè di un’apertura della mente umana sulla verità assoluta. Come sviluppo immediato del cartesianesimo si propone la meditazione di Malebranche, la quale ritiene che le idee innate ed archetipiche, che sono poste a criterio della verità, non possano in alcun modo essere appartenenza della mente umana, e che debbano invece essere concepite come realtà divine, cui l’uomo accede mediante l'intuizione [10]. La totale dipendenza dell’uomo da Dio nell’apprensione della verità, dottrina agostiniana fondamentale, viene ripresa da Malebranche al fine di illustrare la novità e genialità delle dottrine di Cartesio, che sulle idee innate e chiare e distinte fondavano ogni progresso del pensiero umano.

Pur senza volerlo la posizione di Malebranche accentua l’elemento razionalistico nel porre l’intuito di Dio come fondamento e condizione: infatti il criterio razionalistico delle idee chiare e distinte campeggia nell’indicazione del pensiero umano come legato direttamente alla ragione divina. Inoltre appare piuttosto compromettente l’insistere sulla necessità del legame tra le idee e tra la mente umana e le idee di Dio, così come necessario è, cartesianamente, il legame tra i corpi, in base al movimento delle masse estese. Di questi limiti Del Noce si rese conto solo in parte. E pure solo parzialmente egli comprese l’effettiva posizione di Gioberti. Il ruolo rivestito da questo pensatore nel superamento della mentalità razionalistica non è stato sottolineato nel modo che ci si sarebbe potuto aspettare. Del Noce si è limitato a considerare il plesso Rosmini-Gioberti, come significativo di una ripresa della visione ontologistica che si ricollega alla via maestra del pensiero moderno. L’esito rosminiano del percorso aperto da Cartesio è l’esito teistico, cristiano, cui fa da contraltare l’esito ateistico, distruttivo e nichilistico. Nella presentazione del pensiero di Gioberti Augusto Del Noce non riconosce al pensatore torinese il merito di una ripresa anche sotto il punto di vista “tecnico” della dottrina ontologistica pura, e si limita ad auspicare che debbano terminare le valutazioni contrapposte dei due filosofi italiani, parlando poi della caratteristica cruciale del pensiero giobertiano come “poligonia”[11].

Ritengo che un chiarimento circa lo specifico ruolo ricoperto da Gioberti nell’Ottocento debba essere fatto, se la cultura italiana vuole valorizzare un suo pensatore, e se i pensatori che si dicono cristiani vogliono aprire una specie di dialogo, nell’occasione della “ripresa” di questo autore, che rivaluti il sapere metafisico, spesso trascurato, se non addirittura ignorato, nella foga di seguire prospettive di altra natura. Inoltre ritengo che vada compiuta una riflessione proprio sulla condanna subita dal pensatore, nella proibizione di tutte le sue opere, decretata congiuntamente da Santo Uffizio e Indice (con la conseguente iscrizione di esse nell’Index librorum prohibitorum), per stabilire anche il livello dell’anti-ontologismo che si sviluppò nell’Ottocento, tra i filosofi cattolici.

Infatti appare sempre più chiaro, a mano a mano che progrediscono le ricostruzioni della storia del neotomismo ottocentesco e del primo Novecento, che l’anti-ontologismo fu alimentato da un’interpretazione angusta, se pure comprensibile, della dottrina tomistica della verità e della conoscenza [12]. Si affermarono al livello dei vertici delle Chiesa istanze di protezione dell’ortodossia religiosa che portarono all’affermazione, nelle scuole cattoliche e nella cultura, dei seguaci delle dottrine di S. Tommaso, in filosofia soprattutto. Si trattava di quei seguaci, per essere più precisi, che vedevano nel corpus delle dottrine speculative dell’Aquinate un baluardo rispetto al pensiero moderno, inquinato dal razionalismo, dal sensismo e dal materialismo, nonché, sotto il profilo etico ed antropologico, dall’utilitarismo, dal naturalismo, e dal socialismo. Questo particolare tipo di tomismo venne chiamato “intrasigente”, in quanto rappresentava l’istanza di utilizzare le dottrine di S. Tommaso, ripresentate nel secolo XIX, come un intransigente baluardo contro le dottrine che erano state all’origine delle deviazioni della filosofia rispetto al suo rapporto stretto con la religione cristiana. Le molteplici paure manifestatesi nella Chiesa e in parecchi cattolici indussero a costruire un’interpretazione del pensiero di S. Tommaso che razionalmente confutasse le dottrine pericolose, condotte innanzi dal pensiero moderno.

L’ontologismo divenne, proprio a motivo delle polemiche avviate dal neotomismo, una specie di “spauracchio”, che fu adoperato per bloccare qualsiasi tentativo di delineare una dottrina del conoscere che non fosse quella consacrata dal tomismo di stampo dogmatico. Nel corso degli anni che vanno dalla pubblicazione dell’Introduzione allo studio della filosofia alla morte di Gioberti, si manifesta cioè un processo che porta progressivamente la parte più conservatrice dei pensatori cattolici “romani” e degli stessi vescovi, a diffidare dell’ontologismo ed a considerarlo dottrina pericolosa.

 

 

2. Il termine ontologismo nella visione di Gioberti  

Verifichiamo la creazione del termine “ontologismo” da parte di Gioberti. Esso viene presentato nell’Introduzione allo studio della filosofia, nel contesto dell’opposizione allo “psicologismo”, inteso come l’atteggiamento

 erroneo dei filosofi contemporanei i quali fanno scaturire la conoscenza dal soggetto, anziché dall’Idea intesa come Primo ontologico e psicologico insieme (Primo filosofico). Leggiamo, nel capitolo quarto dell’opera, dedicato alla Formola ideale, la seguente frase: “Il vocabolo dello psicologismo (…) esprime colla sua testura il principato, che questo sistema conferisce alla psicologia su tutte le scienze; nel che consiste il vizio principale di esso. Infatti il psicologista pone il sensibile interno, come base del discorso filosofico; e quindi si sforza di trarre gli oggetti esterni, le sostanze, le cose, la notizia dell’ordine mondiale e morale, e infine l’Idea stessa (…) Definisco adunque il psicologismo un sistema, che deduce l’intelligibile dal sensibile, e l’ontologia dalla psicologia. Chiamerò Ontologismo il sistema contrario, che insegna ed esprime a capello il cammino opportuno a chi vuol rettamente filosofare” [13]. Il che sta a significare che l’ontologismo ricava il sensibile dall’intelligibile, cioè dall’Idea, che è assoluta verità, divina essenza. La derivazione delle verità particolari, del significato delle realtà manifestate dai sensi, avviene dall’intuito dell’Essere, cioè dall’analisi della verità di quella che per Gioberti è la “formola ideale”.

Per il filosofo piemontese la “formola ideale” è “una proposizione che esprime l’Idea in modo chiaro, semplice e preciso, mediante un giudizio” [14]. L’Idea, cioè Dio (per Gioberti sono sinonimi), si esprime naturalmente e necessariamente mediante il giudizio della creazione e sulla creazione, giudizio filosofico rigoroso lo chiama Gioberti, che manifesta insieme la natura dell’Ente, la natura della creazione e la natura dell’esistente. L’ontologismo, esprimendo il primato dell’essere creatore, e l’idealità nell’uomo come derivazione dalla creazione, assume, secondo Gioberti, un grande vantaggio sullo psicologismo, che si sofferma invece sull’esistenza soggettiva dell’idea, e pretende di ricavare l’origine di essa dalle capacità del soggetto. La critica più decisa allo psicologismo è quella rivolta alla dottrina rosminiana dell’Essere ideale, che Gioberti desume sia dal Nuovo Saggio che dall’analisi che il Roveretano compie dell’opera di Mamiani, Del rinnovamento della filosofia antica italiana.  Naturalmente la radice dello psicologismo è, secondo Gioberti, molto lontana, addirittura risalente ad Aristotele, che ha misconosciuto la natura dell’Idea platonica. Soprattutto, però, lo psicologismo è stato sostenuto da Cartesio. Rosmini riveste un suo ruolo nella ripresa di esso in quanto ha posto l’oggetto dell’intuito in un ente ideale, “entità subbiettiva”, e dunque non ha compreso la posizione che l’Ente riveste nel meccanismo della conoscenza e della realtà. L’Essere ideale rosminiano non può essere per Gioberti un intermediario tra la creatura e l’Ente creatore; dunque dev’essere interpretato come un essere creato. In tal modo però perde il carattere di oggetto “immenso, eterno, assoluto, immutabile” dell’intuito [15].

Per Gioberti il Primo ontologico ed il Primo psicologico coincidono nell’Ente reale. L’intuito primitivo di tale Ente non richiede una conoscenza attiva di esso, ma solo la constatazione della sua necessità. “Il giudizio: l’Ente è necessariamente, contenuto nell’intuito primitivo, non è pronunziato dallo spirito con un atto spontaneo e libero, come gli altri giudizi. Lo spirito in questo caso non è giudice, ma semplice testimonio e uditore di una sentenza, che non esce da lui” [16]. Il giudizio della mente che contempla l’Ente “contempla seco l’autonomia che gli è propria; ma non l’afferma con atto volitivo e determinato”. L’“Ente è” è un giudizio intuitivo, non riflessivo. La riflessione è, per Gioberti, successiva alla constatazione ontologica dell’essere necessario di Dio; essa è volontaria, soggettiva ed umana. Invece l’intuito è per l’uomo come un dato oggettivo, nel quale egli si trova collocato e che diviene oggetto di considerazione solo nel momento riflessivo. La base della filosofia umana è, insomma, in un intuito, e tale intuito è divino. “Il lavoro filosofico – afferma Gioberti – non comincia nell’uomo, ma in Dio; non sale dallo spirito all’Ente, ma discende dall’Ente allo spirito”[17].

L’intuito per Gioberti, insomma, si colloca nell’origine divina; esso è partecipe del giudizio divino, ma poi si riflette nel “giudizio umano secondario”. Tra il giudizio che pone l’Ente di sé e la riflessione umana si colloca la parola, che Gioberti chiama “seconda rivelazione” [18]. Pertanto spetta alla parola formulare le verità che lo spirito umano intuisce e poi esplicita nella riflessione. La formola ideale è insieme la posizione ontologica, la verità originaria, e la proposizione umana che descrive il rapporto tra l’uomo e Dio, tra il pensiero dell’individuo e l’Idea-verità. Sulla base dell’esame del linguaggio Gioberti ricostruisce le dottrine metafisiche più rilevanti. Ente, esistente e creazione sono i termini che nel linguaggio, divinamente originato, ma umanamente disposto, costituiscono il rapporto fondamentale per dare un senso compiuto all’intuito. L’esistente, ossia l’esistenza, indica la dipendenza dall’Ente; di qui il rilievo della formola ideale relativamente al problema della produzione del mondo da parte di Dio. La causalità è insieme il nesso tra l’Ente e l’esistente, e il rapporto tra l’Ente e la conoscenza della mente degli individui esistenti. Grazie all’analisi di termini fondamentali come Ente ed esistente la filosofia prova il principio della creazione. Essi sono correlati e non possono essere disgiunti per spiegare il mondo e l’azione dell’Ente creatore [19].

Scrive Gioberti: “La nostra cognizione intuitiva dee percepire i suoi tre termini, secondo l’ordine, in cui sono realmente disposti, e perciò deve apprendere la creazione, come un fatto, di cui lo spirito è testimonio, discendendo dall’Ente alle esistenze, e apprendendo queste nell’atto creativo, che le trae dal nulla” [20]. L’intuizione da parte dello spirito dell’Ente nella sua concretezza “non lo contempla mica nella sua entità astratta e raccolto in sé stesso, ma qual è realmente, cioè causante, producente le esistenze, ed estrinsecante in modo finito colle sue opere la propria essenza infinita; e quindi apprende le creature, come il termine esterno, cui l’azione dell’Ente si riferisce”. Il processo psicologico dell’intuito è eguale al processo ontologico; di conseguenza lo spirito umano “contempla le esistenze prodotte nell’Ente producente, ed è in ogni istante della sua vita intellettiva spettatore diretto e immediato della creazione” [21].

Per Gioberti l’intuito evidenzia la duplice valenza del giudizio in cui consiste la formola, di giudizio assoluto speculativo e di giudizio pratico. Il primo giudizio, circa l’Essere che è necessariamente, è il giudizio che l’Ente dà di se stesso; si tratta insomma del giudizio speculativo di Dio. Il secondo giudizio è la posizione dell’esistenza universale, cioè un giudizio pratico, che sottolinea la libertà della creazione divina. “Nelle scienze filosofiche la formola fondamentale ne viene somministrata dal giudizio divino, che è una produzione d’idee: nelle fisiche, dal grande e divino esperimento della creazione, che è una rivelazione di cose” [22]. Questa duplicità non è semplicemente formale, ma sostanziale. Infatti le esistenze sono nell’Ente come sostanze seconde, e non necessariamente. Di qui la distinzione sostanziale dell’esistente dall’Ente (“il fatto ideale”), ed insieme la sua appartenenza all’Ente, cioè al “vero ideale” [23].

La separazione e distinzione dell’Ente che crea dall’esistente creato non significa però, per Gioberti, che nell’indagine filosofica il punto di partenza si trovi nella realtà fisica, cioè nell’esistente creato, per poi risalire all’Ente. Consapevole della difficoltà di sostenere il contrario Gioberti affronta il punto nodale della sua dottrina, cioè che nella conoscenza l’intuito delle menti create si riferisce innanzitutto all’Ente reale creatore e solo in seconda istanza alle realtà sensibili. “L’idea di esistenza non potrebbe precedere nell’intuito quella dell’Ente, o esserne indipendente, senza contraddizione. Si vede adunque che noi non possiamo cogliere l’esistenza, se non in quanto è creata dall’Ente; e però lo spirito nel processo immanente dell’intuito trapassa dall’Ente all’esistenza, per mezzo dell’anello intermedio della creazione” [24].

La conoscenza umana esiste perché si affissa nell’atto creativo divino. “L’Ente si mostra, come intelligente e attivo, e le esistenze ci si apprestano in un punto medesimo, che il fiat dell’Onnipotente le chiama dal nulla alla realtà e alla vita”. Gioberti, consapevole di questa caratteristica della conoscenza umana, come una perpetua relazione con la creazione divina, afferma: “La percezione diretta, che l’uomo ha del mondo e di sé stesso, è l’intuito assiduo di una continua creazione” [25]. Con Malebranche sostiene che “la conservazione del mondo è una creazion continua”.

Gioberti si richiama parecchie volte al pensiero di Malebranche, e riporta molti suoi testi, a dimostrazione dell’importanza in senso ontologistico della sua filosofia. Però si ha l’impressione che il filosofo piemontese tenda a sottolineare l’inadeguatezza della sua posizione. Probabilmente egli pensa che Malebranche abbia assegnato all’intuizione della mente umana un compito piuttosto limitato ed insieme che non sia stato in grado di difendere adeguatamente la conoscenza delle idee in Dio dagli attacchi di coloro i quali gridavano allo scandalo perché si osava parlare di conoscere Dio nell’ambito delle idee da lui pensate, contemplate e poi poste nella creazione. La visione che scaturisce dalla formola ideale è per Gioberti più adatta a spiegare l’intimo contatto della mente umana con le idee in Dio; anzi tale formola elimina l’equivoco di parlare di “conoscenza delle idee in Dio”, perché illustra l’intuito nella sua più ampia accezione. Dio, intelligibile e causa prima, non è contemplato dalla mente in questa sua natura. Il Dio-Intelligibile, come Causa prima, “riduce all’atto le intellezioni sue proprie, rappresentative degli ordini contingenti”; d’altro canto il Dio-Causa prima, come Intelligibile “fa che gli effetti da noi vengono conosciuti”. Per conoscere le realtà contingenti della creazione occorre che esista l’intuito del Necessario; d’altro canto le intellezioni comportano l’Intelligibile.

Il problema che si pone a questo punto a Gioberti è come possa la mente di un individuo conoscere le idee che sono riflesse nel mondo creato, operando tra creazione e creato. La soluzione di tipo empiristico e, nel pensiero cristiano, quella di tipo tomistico-realista, che fa risalire la conoscenza all’astrazione dai dati sensibili, nel passaggio dalla forma intelligibile potenziale nel dato sensibile alla forma intelligibile, il concetto, sembra non comporti difficoltà per spiegare la conoscenza come passaggio tra l’individualità della sostanza di cui si dovrebbe conoscere l’essenza e il concetto che si ricava. In realtà, invece, per Gioberti, questa soluzione cade nel difetto di tutto lo psicologismo, perché separa la mente dal suo creatore e non permette di comprendere la realtà prima, originaria, che è quella dell’Idea o dell’Ente reale. Dai dati sensibili non è possibile risalire alla divinità creatrice del mondo mediante un ragionamento, che resta nella sua natura un ragionamento soggettivo. Occorre che la mente umana si trovi nello stesso atto di creazione, ne partecipi, e possa essere consapevole di esso.

Il vero problema, tuttavia, è quello di assegnare individualità alle conoscenze che derivano dal procedere della mente nella logica dell’intuito e della riflessione (anziché nella logica del dato sensibile e dell’astrazione). “Noi crediamo – afferma Gioberti – che il problema dell’individuazione e quello della creazione siano inseparabili, e ne facciamo uno solo”. Nel risvolto 

 ontologico del problema dell’individuazione si ricerca “qual sia il principio costitutivo dell’individuo nell’ordine delle cose reali”; nel risvolto psicologico “s’investiga come l’entità individuale si apprenda e conosca” [26]. In realtà il problema è quello d’una corrispondenza tra l’intuito di Dio e l’intuito della creatura. Si assegna naturalmente l’individualità all’esistente, e la generalità all’Ente: ma occorre stare attenti a non ridurre la fonte dell’individualità al solo senso, perché la generalità delle idee riflesse e la concretezza dei sensibili non sono soltanto elementi di soggettività. Per Gioberti il generale “è l’Ente necessario, infinito, universale, avente in sé le idee di tutti  i possibili e la virtù di effettuarli”; quindi esso è fonte dell’individualità, che però è tale solo nell’esistenza. “L’individualità contingente è l’esistenza, che non essendo, né potendo essere infinita, concentra la sua realtà in un punto determinato. L’individuo finito tiene il mezzo tra l’Ente e il niente. Quindi è, che ad averne la cognizione si richiede l’intuito dell’atto creativo, il quale individualizza l’idea generale, recandola all’esistenza” [27]. L’intuito umano coglie l’atto creativo attraverso le generalità, ma insieme comprende che la generalità si riverbera nell’individualità. Non è la condizione soggettiva della conoscenza che rende possibile l’apprensione dell’individuale, ma l’atto divino che costituisce l’esistente nella sua condizione di creatura. Si potrebbe dire che la conoscenza dell’individuale è quella di Dio, che poi si duplica nell’individuo pensante.

L’esistenza degli individui dipende dalla creazione, e quindi l’individuo non è altro che l’attuazione dell’idea. Nel contempo l’idea è “l’attuazione dell’individuo”[28]. Ciò significa che la realtà individuale non è vista in se stessa, bensì nella sua causa divina, come partecipazione di essa. Le cose individue sono percepite come reali perché sono prodotte, cioè sono state create e rese individuali. L’errore del pensiero contemporaneo, afferma Gioberti, è di considerare le cose prodotte perché sono reali. Il divenire degli individui invece non dipende dal loro essere individui, ma dal loro essere stati prodotti dall’Ente. Vi è cioè un capovolgimento sia del modo empiristico di considerare il mondo, che delle stesse filosofie idealistiche, le quali fanno dipendere la realtà degli oggetti individui dal loro perenne divenire.

Nell’ambito della conoscenza i concetti che riguardano l’Ente ed i concetti che riguardano le cose contingenti sono facilmente distinguibili. In particolare, ciò che riguarda l’Ente reale, cioè la sua essenza di assoluto e creatore, riguarda concetti che, in luogo di illustrare un’essenza che all’uomo sfugge, descrivono in una sequenza di distinzioni l’unità irraggiungibile. L’idea dell’Ente, che è data all’uomo dall’intuito, da una sorta di percezione immediata, comprende, indivisi, i concetti di “eterno, immenso, uno, infinito”. Questi concetti sono invece considerati dalla mente nella loro distinzione e diversità, laddove nella “vera rivelazione”, quella diretta, sono solo un’unica connessione. La dipendenza della mente umana dall’idea dell’Ente, riguardo ai concetti assoluti, non è generativa, ma semplicemente logica [29]. I concetti relativi, che provengono dalla conoscenza dell’esistente, non sono generati dalla mente umana, ma provengono dalla creazione dell’Ente. In altre parole Gioberti vuole affermare che essi sono il frutto della creazione, e che pertanto hanno una validità oggettiva, rispecchiando la natura contingente delle cose create secondo l’ordine della creazione, cioè secondo l’idea di esistenza [30]. L’ordine stabilito dall’esistenza, però, viene colto dalla mente per dipendenza logica e non per via di generazione; non esiste un’autonomia della mente di ordinare i concetti della realtà secondo proprie strutture. “I concetti relativi non procedono dall’idea di esistenza, per via di generazione o di produzione, ma per modo di semplice dipendenza logica” [31]. La conseguenza è che i concetti trascendentali, secondo il modo kantiano, non si possono concepire nell’universo presentato dall’ontologismo.

La certezza del conoscere viene dall’evidenza, che è l’intelligibilità delle cose. Le due evidenze, metafisica e fisica, sono la medesima evidenza, salvo che la prima è intrinseca all’Ente e la seconda è estrinseca, cioè “l’intelligibilità considerata ne’ suoi rivi, e non nella fonte, nelle cose create e intellette” [32]. Le cose in un certo senso “rifrangono” i raggi della luce divina, cioè dell’intelligibilità vera, quella “immediata e perfetta”. Solo quella divina è vera intelligibilità; l’evidenza che presentano gli oggetti è la più vicina all’uomo, ma la meno diretta. Inoltre l’intelligibilità che promana dall’atto creatore dimostra insieme l’assolutezza di esso e la sua libertà; al contrario la contingenza dell’azione delle creature e della loro conoscenza non genera libertà, ma si configura come il riconoscimento di un ordine di cui l’uomo non ha responsabilità, e che deve solamente descrivere nella sua manifestazione. L’uomo non può essere certo che le cose che gli appaiono evidenti siano necessarie; deve solo riconoscere l’ordine di queste esistenze. Esiste inoltre la possibilità dell’interruzione di quest’ordine “conforme alla teologia dell’universo” [33]. In altre parole Gioberti ritiene che il soprannaturale possa sospendere le leggi naturali poste dalla creazione, e che nessuna evidenza naturale possa sovrapporsi al disegno provvidenziale.

L’intuizione che l’uomo compie dell’atto creatore, se intesa dal punto di vista dell’investigazione metafisica, non gli permette, in conclusione, di conoscere “quel nesso misterioso, che corre fra l’Ente e l’esistente”. L’uomo vede solo un fatto, e non scorge la ragione intima del fatto, né penetra la sua essenza. “Lo spirito vede l’atto creativo dell’Ente, senza avvisar la natura recondita di tale atto, come gli occhi vedono il modo di un corpo, senza percepire o conoscere altrimenti l’essenza della forza motrice” [34]. La conseguenza è, per Gioberti, che nessuno potrà accusare la prospettiva ontologistica di porre sullo stesso piano la mente umana e il Pensiero di Dio, cioè di teorizzare da parte della mente una comprensibilità piena dell’Ente in quanto fonte della verità. Il fatto di una dipendenza diretta, nell’intuito, della mente dall’Ente non autorizza a pensare ad una partecipazione dell’intero nesso che collega le due realtà, tra di loro incommensurabili.

Mi limito a questi testi, in quanto in essi è contenuta la posizione di Gioberti riguardo al concetto di ontologismo. Non potendo analizzare l’intero sviluppo del pensiero giobertiano riguardo anche semplicemente alla formola ideale, credo che possa bastare la constatazione che Gioberti intendeva proporre in un modo molto più ricco ed articolato la posizione di Malebranche, privandola dell’impostazione razionalistica. Il punto nodale è l’affermazione della creazione, che permette di considerare l’intuito, da parte della mente umana, come un atto che costituisce la conoscenza e le capacità individuali, e le pone in una relazione “diseguale” ma efficace con un criterio assoluto di verità. Rispetto alla posizione malebranchiana, che si sofferma soprattutto sulla conoscenza delle idee in Dio, Gioberti sposta la considerazione sulla simultaneità che esiste tra la costituzione ontologica della creatura e la sua capacità di conoscere, sia pure in modo appena adeguato e privo della consapevolezza delle connessioni logico-ontologiche, i principi e le realtà della creazione.

 

3. Gioberti davanti alle Congregazioni romane  

Resta da chiedersi ora se le motivazioni della condanna che colpì Gioberti agli inizi del 1852 risiedessero nella dottrina ontologistica, oppure se tale posizione attrasse l’attenzione delle autorità ecclesiastiche in tempi successivi. La risposta è certamente che l’ontologismo fu uno dei motivi principali che condussero alla condanna, ma che ancora non si può parlare, nel caso di essa, di una condanna ecclesiastica dell’ontologismo.

Della proibizione all’Indice del Gesuita moderno, avvenuta con il famoso decreto napoletano del 30 maggio 1849 [35], Gioberti aveva fatto poco conto, rifiutando, tra l’altro, di inviare una lettera di sottomissione alla Congregazione che aveva condannato la sua opera.  L’impatto di questo atto dell’autorità romana con l’animo di Rosmini, pure lui colpito con la proibizione delle Cinque piaghe e della Costituzione secondo la giustizia sociale, fu ben diverso; non solo il Roveretano fece pronta sottomissione, ma si preoccupò di mostrarsi assolutamente ubbidiente alle decisioni [36]. Secondo il filosofo torinese, invece, le circostanze della condanna svalutavano di per se stesse il pronunciamento autoritativo [37]. Egli tuttavia sbagliava nel sottovalutare la portata di esso. Non era il provvedimento che avrebbe dovuto preoccuparlo, bensì le reazioni che avrebbe potuto sollevare. In questo senso Rosmini aveva avuto ragione nel preoccuparsi di prevenire i molti attacchi contro di lui, che puntualmente si verificarono, con un’azione di diffusione dei suoi autentici sentimenti e con un’azione di presa di distanza da ogni posizione che avrebbe potuto sollevare ulteriori accuse.

La proibizione del Gesuita moderno scatenò gli avversari di Gioberti nella direzione di un attacco al suo intero sistema filosofico. Il pensatore venne “denunciato” in questo senso alle Congregazioni romane da un’animata assemblea di vescovi dell’Emilia, riuniti a Imola il 4 ottobre 1849 per il loro sinodo provinciale. Le motivazioni di questo documento di denuncia, che fece scalpore in ambito cattolico, e che colpì pure il Pontefice, stavano nella preoccupazione che si diffondessero tra i cattolici opere perniciose per l’ortodossia sotto l’apparente protezione di illustri autori cristiani. Prendendo lo spunto dalla condanna all’Indice del Gesuita moderno, assieme alle Cinque piaghe ed alla Costituzione, i vescovi emiliani, sostenuti dall’arcivescovo di Ferrara, il card. Ignazio Cadolini, avevano chiesto al papa di indagare sull’erroneità delle altre opere del pensatore torinese[38]. Si sospettava fortemente che esse fossero infette da gravi errori contro la dottrina cattolica, se era vero che la principale delle opere antigesuitiche era stata condannata anche per il suo spirito implicitamente anticristiano. Nessuno poteva sapere, data la segretezza dei documenti (solo oggi resi accessibili) che il Gesuita moderno in realtà non aveva subito alcun tipo di analisi e di censure da parte dell’Indice e che quindi la sua condanna era stata decisa solo per non “lasciare sole” le opere di Rosmini in una condanna tanto significativa 

per la carriera del Roveretano. Nella sua relazione al papa mons. Pietro Giannelli, segretario della Congregazione, uno degli ispiratori delle mosse antirosminiane, lo aveva scritto a chiare note [39]. Agli occhi dei vescovi riuniti ad Imola i vari tumulti che si erano verificati in Italia nel 1848-49, ivi compresa la nascita della Repubblica romana, erano stati alimentati dalla diffusione degli scritti giobertiani. Quindi non doveva meravigliare il fatto che il Gesuita fosse stato proscritto; anzi tale provvedimento, per loro, non doveva restare senza conseguenze.

I vescovi collegavano strettamente le tesi filosofiche di Gioberti (di cui peraltro avevano solo sentore) con le prese di posizione del filosofo nella sua rilevante veste di uomo politico in Piemonte. Colui che aveva le idee più chiare su ciò che era erroneo nel pensiero di Gioberti era il card. Cadolini, il vero ispiratore del “pronunciamento”. Due comunque furono gli scritti antigiobertiani che influirono su questo prelato. Il primo è un libro del gesuita Carlo Maria Curci, scritto per confutare l’intera produzione giobertiana antigesuitica [40]. Esso contribuì ad orientarlo ad una considerazione di Gioberti come pericoloso, per la causa cristiana, in ogni sua opera ed in ogni suo atteggiamento. Il secondo libro è sostanzialmente la fusione di due lavori, comparsi a breve distanza tra di loro, e di cui era autore un certo “Zarelli”, pseudonimo del francescano Giovanni Maria Caroli. Costui aveva intrapreso una serrata, se pure in certi punti maldestra, critica della filosofia giobertiana, sulla base delle posizioni di Rosmini [41].

In sostanza il p. Caroli aveva fatto proprie le critiche rosminiane a Gioberti, che erano state pubblicate nell’opera Vincenzo Gioberti e il panteismo, del 1846, lavoro che peraltro fu completato dal Roveretano nella veste definitiva solo nel 1853 [42]. La pubblicazione dapprima di una critica alla filosofia giobertiana, e poi di una critica alle dottrine teologiche (o meglio dei riflessi sulla teologia della filosofia giobertiana) aveva 

attirato l’attenzione di parecchi. In fondo di veri e propri scritti di critica al sistema di Gioberti ne erano apparsi pochi. L’attenzione era stata polarizzata fino a quel momento sulle sue idee politiche ed antigesuitiche. Caroli invece, se pure con una certa superficialità, colpiva duro nelle dottrine metafisiche. Si accorse degli argomenti di questo battagliero francescano proprio il card. Cadolini, che ebbe l’ispirazione di divulgarne al massimo le critiche presso il clero dell’Emilia e delle Romagne. Ne nacque così un movimento di persone preoccupate di quanto poteva essere pericolosa la diffusione delle prospettive giobertiane, soprattutto di quelle ontologistiche, che erano state innanzitutto prese di mira dalla critica di Rosmini.

Il pensatore di Rovereto non aveva incoraggiato il p. Caroli nella stesura degli scritti, permettendo però che questi si avvalesse delle critiche sue [43]. Quando apparvero le due opere il filosofo di Rovereto non volle in alcun modo figurare tra gli ispiratori di esse. In effetti il chiasso che fecero gli scritti di Zarelli non toccò Rosmini, ma si appuntò sul fatto che la stessa ortodossia cristiana di Gioberti veniva posta in dubbio. Di ciò approfittarono i vescovi emiliani e romagnoli. Ad essi non parve vero di invocare, a questo punto, un intervento autoritativo. Di qui la curiosa circostanza che, nella loro lettera, essi invitavano il Pontefice a provvedere onde liberare la Chiesa da ingegni “traviati”. Ora i traviati, in quanto già colpiti da condanna per alcuni loro scritti, erano solo Gioberti, Rosmini e Ventura, i destinatari della condanna all’Indice pronunciata il 30 maggio 1849[44]. Ma, ove si eccettui il p. Ventura, che si era “traviato” politicamente per il suo appoggio alla Repubblica Romana, non c’era dubbio che di ”traviamento” di Rosmini era difficile parlare, anche perché il Roveretano si era prontamente sottomesso alla condanna. Quindi, nella loro foga antigiobertiana, i vescovi avevano accusato indebitamente le dottrine di Rosmini.

Cosa avrebbero pensato i vescovi se fosse stato loro chiaro che le critiche del p. Caroli si fondavano sugli argomenti di Rosmini? Certo è che la maggioranza dei vescovi italiani avversava Rosmini, considerando pericolose non solamente le sue dottrine politiche, ma ritenendo che la stessa prospettiva teorica non fosse in sintonia con la fede cristiana, e che vi fossero pericolose deviazioni nelle sue celebrate dottrine, anche in quelle che riguardavano la conoscenza e la morale [45]. La riprova di questa sfiducia sta nella diffusione che ebbero, di lì a poco, le accuse del padre Ballerini, il famigerato “prete bolognese”, e nella diffidenza che sempre circondò la figura di Rosmini nel periodo in cui le sue opere furono esaminate dalla Congregazione dell’Indice [46]. In un certo senso si può dire che per l’episcopato italiano, salvo lodevoli eccezioni, l’intervento di Pio IX, che intimò il silenzio nella polemica tra Rosmini e la Compagnia di Gesù, onde far esaminare tutte le opere del Roveretano, preludeva ad una severa sanzione nei confronti delle molte posizioni ardite ed equivoche che gli venivano attribuite [47].

Ma la dose maggiore di diffidenza, se non ostilità aperta, andava verso Gioberti. Fu molto diffusa pertanto la sensazione che l’indirizzo dei vescovi romagnoli preludesse ad una condanna. Il fatto, poi, che il pensatore torinese avesse rimesso in circolazione la Teorica del sovrannaturale, con un amplissimo Discorso preliminare, in cui prendeva in considerazione le critiche di Caroli-Zarelli, eccitava ulteriormente l’ostilità. Di questa atmosfera fu consapevole lo stesso Gioberti, al quale tuttavia non fu chiaro che gli argomenti contro la sua visione erano desunti dalle critiche rosminiane [48].

Gli argomenti contro la filosofia ontologistica di Gioberti,

  da parte di Rosmini, insistevano sul fatto che l’intuito della mente riguardava l’Essere reale in luogo di riguardare solo l’Essere ideale, cioè un essere che poteva assicurare l’universalità e la veridicità della conoscenza senza costituire un oggetto irraggiungibile dalle forze di una mente umana. Per Rosmini, se si ammetteva che l’oggetto della conoscenza fosse innanzitutto l’Idea come realtà della divinità creatrice, si era forzati a proporre una tale medesimezza tra la mente e Dio da rischiare una prospettiva panteistica, cioè un congiungimento della mente a Dio. La critica di Caroli-Zarelli riprendeva tale argomento. Con la conseguenza che Gioberti veniva attaccato ora con gli stessi argomenti dei rosminiani, senza però che di questo ci fosse consapevolezza nel “giro” degli avversari suoi.

La vicenda della condanna degli scritti giobertiani e lo stato dei documenti relativi ad essa non permette tuttavia di comprendere fino in fondo su quali argomenti si basò la decisione presa dal consesso dei cardinali dell’Indice e del Santo Uffizio, di cui diremo. Ciò che risulta, come ora si vedrà, mette sicuramente in una posizione preminente le accuse derivanti dalla posizione ontologistica. Certamente si costituì, nel corso del 1850 e del 1851, negli anni in cui fu istruito il “processo” all’intera produzione del filosofo torinese, un fronte di posizioni filosofiche e teologiche avverse alle dottrine che trovavano nell’ontologismo la loro base. Si trattò tuttavia di un fronte né compatto né consistente. Il costituirsi dell’antiontologismo avvenne dopo il 1852, e fu lento. Furono i gesuiti della “Civiltà Cattolica” a guidare le schiere degli avversari della dottrina della visione delle idee in Dio, nelle sue varie formulazioni. In particolare si dovette al p. Matteo Liberatore la creazione di una serie di argomenti e di “luoghi comuni” per la polemica antiontologistica [49]. I nuovi critici non accettarono, tra l’altro, la validità di un’intuizione mentale della verità oggettiva, intesa come Idea, astrazione dalla divina realtà, come sosteneva Rosmini, e quindi colpirono, come ontologistiche, tanto la posizione di Rosmini quanto la formola ideale di Gioberti. Il primato cioè dell’Idea, dell’oggettività del sapere, che entrambi sostenevano, ma con diverso valore attribuito all’idealità, venne inteso dai critici come pericoloso, sia che riguardasse un’Idea-realtà, cioè l’Ente divino, come era il caso di Gioberti, sia l’Idea dell’essere, astrazione, come era il caso di Rosmini.

La “fusione” delle critiche contro l’ontologismo avvenne tuttavia dopo la condanna delle opere di Gioberti e il decreto Dimittantur opera della Congregazione dell’Indice intorno alle opere di Rosmini. Fino alla metà degli anni Cinquanta sembra in un certo senso che da parte delle autorità dottrinali della Chiesa cattolica, in relazione alle cosiddette tesi ontologistiche si operi una distinzione tra le posizioni di Gioberti, condannabili, e le posizioni di Rosmini, accettabili e di cui si può autorizzare la circolazione tra gli studiosi e tra i cristiani. Il che in un certo senso veniva incontro alla stessa “tattica”, adoperata da Rosmini, di respingere con forza l’ontologismo giobertiano, facendo rilevare la distanza tra le proprie posizioni e la filosofia della formola ideale. L’epistolario del Roveretano, negli anni tra il 1851 ed il 1854, presenta parecchie lettere in questa direzione, e non solo al procuratore Bertetti, che a Roma seguiva l’esame delle opere.

La vicenda della condanna delle opere giobertiane fu, quindi, in un certo senso, parallela alla vicenda dell’esame degli scritti rosminiani. La profonda diversità tra i due procedimenti sta nel fatto che Gioberti era già, in un certo senso, destinato ad una condanna. Lo si può capire dalle procedure adoperate nel processo dedicato alle sue opere. Pio IX investì dell’esame delle opere il card. Brignole, Prefetto dell’Indice, lo stesso che aveva presieduto la Congregazione di cardinali del 30 maggio 1849. L’esame degli scritti fu affidato a cinque consultori, la cui indole e la cui collocazione paiono significative. In primo luogo furono coinvolti il p. Giovanni Battista Tonini, minore conventuale; il p. Giacinto De Ferrari, domenicano. In un secondo momento è dato capire che furono interessati anche il canonico Angelo Fazzini, curiale, particolarmente vicino al card. Brignole; il p. Antonio Maria Fania da Rignano, minore osservante; ed il p. Carlo Vercellone, barnabita. Possiamo ora leggere tutti i “voti” espressi da questi consultori presso l’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, da qualche anno aperto agli studiosi [50]. L’incarico di revisione toccò ai consultori tra la fine del 1849 ed il 1851: ma i tempi del loro studio delle opere giobertiane non furono eguali per tutti. Nella maggioranza dei casi il giudizio sulle opere giobertiane fu dato con superficialità, nel giro di pochi giorni: è il caso del p. Tonini. In effetti gli unici a fornire pareri motivati e meditati, raggiunti dopo notevole studio, furono Vercellone e Fania da Rignano. Il segretario dell’Indice, il p. Angelo Modena, pensò anche di ricorrere in via “parallela” al p. Carlo Maria Curci, che, con i suoi libri Fatti e argomenti, e Una divinazione, risultava essere l’autore del più esauriente esame complessivo dell’antigesuitismo e delle dottrine religiose di Gioberti fino ad allora compiuto. In realtà però il “voto” che questi fornì alla commissione non andò oltre un riassunto pungente delle tesi già sostenute nello scritto del 1848-49 [51].

L’incertezza dei responsabili della Congregazione dell’Indice sul caso Gioberti divenne palpabile a mano a mano che procedevano il lavori. Il p. Modena si rese conto che esistevano forti dubbi sulla condannabilità delle opere del pensatore piemontese. Nel contempo si rese conto che l’ostilità di tre dei consultori nei confronti di Gioberti non poteva estrinsecarsi in un giudizio certo, con argomenti decisivi. L’incertezza fu verificata nella seduta preparatoria del 23 maggio 1851. Data l’autorevolezza dei voti di due consultori, Carlo Vercellone[52] e Antonio Maria Fania da Rignano [53], favorevoli alla “dimissione” degli scritti di Gioberti, si ritenne difficile da parte del consesso accettare il parere favorevole alla condanna (sia pure maggioritario) degli altri tre consultori, cioè Fazzini, Tonini, e De Ferrari. Di fronte al “voto” dei favorevoli alla condanna, rappresentato da tre consultori, ed al “voto” dei contrari, rappresentato da due consultori, la Congregazione preparatoria pervenne ad un differimento di decisione, tipico dei casi in cui si manifestavano forti dissensi per una condanna.

La posizione dei consultori favorevoli alla condanna delle opere si può riassumere nel “voto” di Fazzini [54]. Solo lui, dei tre pensatori che si dimostrarono avversi a Gioberti, esplicitò con testi ed argomenti le motivazioni per cui si chiedeva alla Congregazione di proibire tutte le opere giobertiane, Primato compreso. Il punto fondamentale della critica verteva sulla formola ideale: l’accusa era quella di possibile panteismo. Fazzini prende lo spunto dalla critica radicale di Curci al metodo di Gioberti, considerato anticristiano nel Gesuita moderno, e applica le argomentazioni del gesuita neotomista al terreno metafisico e della conoscenza. Se l’Ente crea l’esistente, e non un ente finito, così ragiona il canonico romano, allora l’essenza entitativa di tale esistente si trova preesistente in Dio. La creazione, quale è teorizzata da Gioberti, non è ex nihilo, ma viene dedotta dall’attuale e reale dell’Idea. Inoltre l’intuito da parte dell’esistente dell’ente è il segno di una dipendenza della mente dall’Idea, e di una confusione di entrambe. L’intuito è definito da Fazzini “pregustativo beatifico”: sia che lo si intenda in senso analogico, o mitico, o reale filosofico, o teologico esso pone problemi per la fede cattolica. Infatti l’intelligibilità è originata e compiuta “in un ciclo dall’idea, e pone la facoltà d’apprendere nel logo divino termine medio”: ciò significa per Fazzini che la ragione umana in Gioberti è “la stessa per essenza e realtà oggettiva che la ragione Divina, e non già esemplata per assimilationem a modello della ragion Divina come dice S. Tommaso” [55].

La critica di Fazzini si appunta sul modo di intuire gli intelligibili. Il sistema di Gioberti, per lui, si incentra su due proposizioni: “L’intelligibile in Dio è l’intelletto Divino; l’intelletto dell’esistente è lo stesso intelligibile di Dio”. L’intelligibile, in realtà, dovrebbe trovarsi nella mente come “similitudine dell’esemplare”, e non come esemplare direttamente. La posizione di Gioberti misconosce il modo normale di concepire la conoscenza degli intelligibili. S. Tommaso, secondo la visione di Fazzini, esclude che la creatura possa intuire l’essenza di Dio. Le forme esemplari eterne, in Dio immutabili, sono “partecipate per similitudine dall’esemplare eterno alla forma dell’intelletto creato”. L’intuito, quindi, per S. Tommaso, non è mai diretto, ma sempre per specchio e per similitudine del lume increato [56]. Mentre S. Tommaso descrive la corretta situazione della mente umana, Gioberti, prescindendo da tale posizione, rende quasi impossibile la dimostrazione di una autentica conoscenza.

Le critiche di Fazzini, che rispecchiavano il sentire di quella parte dei seguaci di S. Tommaso che iniziava a manifestarsi anche in Italia, con Sanseverino, Curci e Taparelli e Serafino Sordi alla testa, si appuntavano sulla presunta confusione tra l’intelletto creato ed il Lume della ragione, cioè l’Intelletto divino. Il modo di dipendenza di quello da questo può essere solo logico, ma non fisico o psicologico [57]. Di conseguenza Gioberti appare vicino ai panteisti, ai razionalisti ed agli emanatisti. Tali propensioni sono riscontrate da Fazzini nella citazione di parecchi passi delle opere giobertiane (e non solo dall’Introduzione), da cui si può desumere una gran quantità di errori anche di natura pratica e teologica. “Il sistema dunque di Gioberti è putida eresia fondamentale e monoteismo derivato dai principi Platonici Panteistici, sempre cari ai Giansenisti da lui lodati, specialmente Arnaud e Paschal (sic), in quanto che trova in essi l’elemento di distrugger la creatura il libero arbitrio e tutto concedere alla grazia, od idea” [58].

Il punto di vista che era contrario alla condanna del pensiero di Gioberti può essere riassunto nella posizione del p. Antonio Maria Fania da Rignano, il consultore che fornì il voto più ampio e circostanziato, una vera e propria trattazione del sistema giobertiano. Pur non tacendo le critiche possibili alle prese di posizione politiche del filosofo piemontese; pur non nascondendo che talune indicazioni speculative del filosofo torinese potrebbero preludere a sviluppi non prevedibili, e che quindi la sua nuova opera annunciata, la Protologia, potrebbe anche contenere sviluppi non ortodossi, il p. da Rignano esprime un giudizio favorevole alla dimissione delle opere che sono state pubblicate. L’insieme degli scritti dimostra l’intento apologetico della religione cattolica; il complesso delle opere metafisiche appare un sistema di genuina filosofia cristiana, in grado di indicare il criterio della verità e di difendere la scienza ontologica [59]. Commentando lo scritto di Caroli-Zarelli, il p. da Rignano esorta tutti gli studiosi seri ad abbandonare la polemica ed a dimenticare le vicende contingenti di natura politica in cui Gioberti può non aver dato il meglio di sé, tenendo presente solo l’interesse della religione cristiana e della sua difesa dagli errori moderni [60].

Il francescano nota, nell’esordio del suo esame del pensiero di Gioberti, che “in quanto è poi al metodo, egli è, e secondo il suo sistema dell’Idea, non può altrimenti essere che ontologista”. La spiegazione è questa: la certezza e l’evidenza non possono essere che da Dio, “dal lume della sua Idea, onde c’informa, e rende intelligenti, e fa intelligibili tutte le cose; e non dai sensi, contro ai sensisti, né dallo spirito contro gli psicologisti: imperocché ogni pensiero è impossibile, è contraddittorio senza l’anticipazione del Vero nella mente; e questo vero è l’Idea, cioè Iddio che rivela se stesso, e con l’autorità del suo proprio splendore, brillante e potente nello spirito, autentica ogni altro Vero, che vediamo nel primo Vero, che contiene i tipi di tutti i veri, o, meglio, è il tipo di tutt’i veri” [61].

Al fine di allontanare ogni critica dalla posizione ontologistica il p. da Rignano riporta vari passi dall’Introduzione allo studio della filosofia, riguardanti l’Idea e l’Ente, e la creazione, cioè la formola ideale, confrontati sinotticamente con testi dei Padri e dei Dottori della Chiesa (in particolare Agostino e Tommaso)[62]. Dal cap. XVIII in poi della sua trattazione il p. da Rignano riporta vari passi dalla Summa theologiae  e li confronta con la posizione di Gioberti. Lasciato il metodo sinottico egli passa in rassegna le questioni tomistiche su Dio e sulla creazione che per lui confermano le dottrine giobertiane, nella loro assoluta ortodossia. La conclusione, opposta a quella di Fazzini, è che Gioberti “a modo de’ Matematici, presi come assiomi, cioè verità indubitabili, tutt’i veri sommi razionali, e tutti i dogmi della rivelazione, e l’ordine, e ‘l processo delle loro manifestazioni allo spirito umano; sopra questi punti inconcussi innalza la sua scienza prima; e considera non solo le loro più intime attinenze infra loro e di tutti col loro unico principio nel Verbo di Dio, ma in questo principio a punto la loro originaria identità; benché in loro stessi, e nel campo dello scibile nelle menti umane infra loro sì diversi ed eziandio opposti” [63].

Il barnabita Vercellone si schiera senza indecisioni a favore della posizione del p. da Rignano e sottopone a serrate critiche i “voti” dei tre consultori che si erano pronunciati per la condanna. Il suo “voto” tiene conto quindi di tutti e quattro gli altri pareri. Vercellone dimostra una buona conoscenza delle opere di Gioberti, anche se non ne esamina direttamente neppure una, limitandosi a rilevare che i tre consultori anti-ontologisti hanno frainteso non soltanto la posizione del filosofo piemontese, ma anche l’ampia ed autorevole tradizione di quello che egli chiama il “sistema della Visione ideale”. Scartata come impresentabile la censura di Tonini, che non cita neppure una sola riga dagli scritti di cui chiede la condanna, Vercellone si sofferma con maggior attenzione sulle altre due censure. Ma anche qui scarta come impresentabili certi argomenti del p. De Ferrari, accusandolo di non aver praticamente compreso nulla del problema che è alla base delle riserve intorno a Gioberti, e cioè dell’erroneità delle posizioni di Malebranche, cui Gioberti sembra rifarsi. Il sistema della Visione ideale, afferma Vercellone, non è mai stato condannato; mentre riserve particolari l’Indice ha espresso solo su alcune opere di Malebranche. Del resto il sistema malebranchiano è stato difeso sempre dal card. Gerdil, con limpidissimi argomenti: dunque Gioberti, se riprende tale teorica, non fa che riprendere una linea interpretativa che nella Chiesa e nella filosofia cristiana non ha mai avuto sanzioni, essendo professata da una tradizione ininterrotta.

Venendo quindi alle accuse di Fazzini, Vercellone ne afferma l’insussistenza, in quanto sono addirittura capziose, tentando esse di convincere che le teorie di Gioberti riguardo all’intuito si discostano da quelle di S. Agostino, di S. Bonaventura e di Gerdil. Il filosofo piemontese invece non si è mai discostato da Bonaventura, né ha frainteso Gerdil; questi due pensatori ammettono chiaramente l’intuito immediato della divina Idea, e Gioberti si è ampiamente rifatto alle loro dottrine. Citando il p. Thomassin, contemporaneo di Malebranche e come lui ontologista, Vercellone ribadisce che la Visione ideale significa che l’oggetto ultimo della mente sono la ragione eterna e l’idea archetipa degli oggetti contingenti e creati che poi sono conosciuti da essa. Il tentativo di Fazzini di porre come essenziale, nelle dottrine di Agostino e di Bonaventura, l’intermediazione della specie intelligibile, tra Dio e la mente umana, è grottesco. Di qui l’insussistenza delle accuse a Gioberti riguardo all’ontologismo, e l’infondatezza totale dell’accusa fazziniana di “putido panteismo”. La conclusione di Vercellone è la seguente: “Con tutti i raffronti e con tutto lo studio che ho adoperato in adempimento all’impegno superiormente affidatomi, non sono riuscito a trovare nelle Opere di G. nessun grave errore contro la fede e la dottrina cattolica”. La sua proposta pertanto è: “Potrei infine toccare le molte e gravissime ragioni di prudenza, le quali sembrano decisamente richiedere che la Chiesa mantenga il silenzio su queste Opere; ragioni che a me pajono più che sufficienti per dimostrare che molto maggior danno può provenire dalla proibizione che non dal silenzio” [64].

L’atteggiamento di questo consultore, come si vede, è simile a quello del p. da Rignano, che si dimostra convinto della grande utilità di professare il sistema giobertiano in ambito ontologico-metafisico. Infatti Vercellone si dichiara per la dimissione delle opere giobertiane in quanto le dottrine contenute in esse non presentano elementi di eterodossia, essendo anzi la dottrina dell’intuito quella che meglio di altre difende il carattere universale e veritativo della conoscenza. Vercellone difende in Gioberti l’importanza delle posizioni di Gerdil, che è il suo autore e che egli considera come una delle menti più sagaci e potenti del pensiero cristiano recente [65]. Inoltre difende l’opportunità di lasciare sussistere il prezioso apporto, entro il pensiero cristiano, della linea ontologistica, o della Visione ideale, come contrappeso alle tendenze, presenti anche negli autori cattolici, alle soluzioni empiristiche o venate di naturalismo (come è il caso delle interpretazioni del tomismo aristotelizzante).

Il Segretario della Congregazione, Modena, non se la sentì di portare la questione davanti alla Congregazione dei cardinali, sembrandogli difficile raccomandare un giudizio di condanna dell’intera produzione giobertiana con tre pareri così scarsamente motivati e scaturiti da personaggi non autorevoli. Egli era consapevole di non poter attribuire ai “voti” espressi per la condanna delle opere un valore pari a quello dei “voti” da Rignano e Vercellone. Quando però portò a Pio IX i risultati della Congregazione, e confessò l’impasse in cui si trovava, ebbe come ordine dal Pontefice di procedere a interessare la Congregazione del Santo Uffizio, affinché l’eventuale condanna scaturisse dal giudizio congiunto delle due Congregazioni dei cardinali. Il papa intendeva che si pervenisse ad una condanna delle opere giobertiane: non poteva deludere l’episcopato italiano.

Così fu: il materiale raccolto dall’Indice fu comunicato al Santo Uffizio, di cui era Segretario il card. Marini, ed Assessore mons. Prospero Caterini, e dato ai cardinali perché ne fossero messi a conoscenza. Fu tenuto conto di tutti i “voti” presentati, compreso il “voto” di Curci. Fu chiesto il parere di un altro personaggio che non era consultore di nessuna delle due Congregazioni, anche lui gesuita, il p. Giovanni Perrone. Il caso del voto di costui è molto complesso. Ci restano presso l’incartamento della Congregazione del Santo Uffizio tre elementi rilevanti: una lettere in cui sollecita il “passaggio” della causa Gioberti dall’Indice al Santo Uffizio, vista la pericolosità degli scritti suoi; un suo parere manoscritto, favorevole alla condanna delle opere, parere che però non venne utilizzato in concreto, ma che rimase come autorevole orientamento; la copia del “voto” del p. Antonio da Rignano postillata con molta irruenza e durezza dal teologo del Collegio Romano [66]. Complessivamente il giudizio di Perrone è avverso alla filosofia giobertiana dell’intuito. Il che, a mio avviso, costituisce il prodromo delle successive prese di posizione del gesuita contro l’ontologismo professato in Francia ed in Belgio. Era ormai chiaro che la Compagnia di Gesù sposava le tesi anti-ontologistiche, eliminava dal suo seno la tendenza ontologistica (le posizioni dei padri Rothenflue, Romano, Martin, ormai non contavano più molto) [67], e, pure nelle sue tendenze meno esasperate al neo-tomismo, come appunto in Perrone, si schierava per una concezione della Visione ideale che ne inibiva l’estensione più ampia.

Quasi certamente la diffusione del parere di Perrone fece pendere la bilancia a netto favore della condanna. Non vi fu bisogno di nessuna riunione preliminare. Nella solenne riunione congiunta del 14 gennaio 1852 i “voti” favorevoli alla condanna degli Opera omnia di Gioberti bastarono ed avanzarono per i cardinali onde formulare un giudizio drastico in tal senso. Il card. Brignole, Prefetto dell’Indice, l’artefice della prima condanna, congiunta, di Gioberti e di Rosmini, non aveva potuto presenziare per la malattia che lo avrebbe poi portato alla morte. Fu invece implacabilmente presente, nella sua qualità di Segretario del Santo Uffizio, il card. Lambruschini, fautore della condanna del 30 maggio 1849 e fautore strenuo della condanna di tutti gli scritti giobertiani. I cardinali Macchi, Mattei, Patrizi, Orioli, Ferretti, del Santo Uffizio, lo seguirono. Addirittura il card. Macchi fortemente rimproverò i due consultori che avevano espresso giudizi favorevoli a Gioberti. Si adeguarono i cardinali dell’Indice, che si diceva essere rimasti dell’intenzione di dilazionare. Votarono per la condanna: Altieri, Cagiano de Azevedo, Fornari, Marini, Bofondi. Gli unici a chiedere, per vari motivi, una dilazione della sentenza furono due eminentissimi del Santo Uffizio, cioè Castracane degli Antelminelli e Mai. In tal modo fu determinata la disgrazia del pensiero giobertiano presso la Chiesa [68].

La procedura inusitata, e l’ottenimento del risultato di proibire la produzione giobertiana attraverso l’intervento determinante del Santo Uffizio, generarono una situazione ben singolare. Gli scritti editi dell’autore del Primato apparvero colpiti da una proibizione che non sembrava di carattere dottrinale. Il decreto congiunto Santo Uffizio-Indice proibiva infatti l’intera produzione del prete torinese, ma non indicava ufficialmente alcuna nota di censura teologica. L’inclusione dell’intera produzione giobertiana nell’Index librorum prohibitorum (libro che non riportava mai motivazioni) poteva benissimo apparire ad un fedele non adeguatamente informato come decisa per motivi di prudenza, e non per un’erroneità completa. Il fedele non era tenuto a concludere che il sistema del filosofo fosse considerato lontano dalla verità cattolica. In realtà, nel verbale della riunione congiunta dei cardinali del Santo Uffizio e dell’Indice, si leggono espressioni che indicano l’individuazione di parecchi errori dottrinali nei libri giobertiani, e si legge una motivazione della condanna che è molto dura. Così si espresse l’Assessore Caterini: “Tutti gli Eminentissimi sono stati di parere di proibire tutte le Opere del Gioberti, si sono indotti a tale sentimento perché in tutte le dette Opere si contengono espressioni e concetti che sempre danno a vedere i principj, e le massime già chiaramente dichiarate e riconosciute per perniciose”. La sentenza di condanna, poi, suona così nel suo solenne latino: “Dicimus et declaramus in memorati auctoris operibus referri et revera esse propositiones: respective falsas, erroneas, non pias, simplicium mentium seductrices, disciplinae christianae eversivas, faventes haereticis, iudaeis et paganis, schismaticas, seditiosas, haereticas, impias, blasphemas et etiam colluviem ominium errorum continentes nimius pantheisticas” [69]. Ma la formula di sentenza non venne resa nota, forse per il carattere “misto” della Congregazione cardinalizia da cui proveniva. Il testo della sentenza si trova in due copie manoscritte nell’incartamento dedicato a Gioberti della Congregazione del Santo Uffizio. Non si sa però quale destino esso ebbe, visto che non fu pubblicato. La riprova, tra l’altro, è nel fatto che nell’Enchiridion di Denzinger non troviamo alcun cenno alla condanna delle opere giobertiane. Il solerte gesuita non avrebbe mancato di inserire questo documento, se ne fosse venuto a conoscenza [70].

Credo che bastino questi pochi ragguagli sul processo a Gioberti per indurci al sospetto che l’attività delle due Congregazioni romane che avevano a cuore le manifestazioni del pensiero cristiano sia stata in questo caso connotata da preoccupazioni che non erano in sintonia con la linearità della procedura e con la trasparenza delle motivazioni. Tale sospetto aumenta quando si considerano le procedure che portarono invece all’assoluzione successiva delle opere rosminiane. Anche nel caso di questo verdetto fu forte l’intervento di Pio IX: ma si verificò a favore del filosofo di Rovereto. Va detto, ad onor del vero, che esso mirò a rendere molto trasparenti i giudizi ed a impedire che si formassero incertezze sulle motivazioni. L’aggiunta di altri consultori a quelli indicati all’inizio per l’esame delle opere rosminiane, voluta dal Pontefice, sta a significare che in questo caso egli propendeva per un’assoluzione del pensatore da ogni sospetto, considerandolo una grande anima per la Chiesa, ed essendo probabilmente pentito di aver lasciato “carta bianca” nel periodo gaetano ai cardinali del “partito dei Genovesi”, che avevano deciso la proibizione delle Cinque piaghe e della Costituzione.

Risulta in ogni caso stupefacente che la procedura verso la condanna degli scritti giobertiani sia stata tanto sbrigativa, se paragonata alle procedure relative a Rosmini. Nel caso di Gioberti nessun nuovo consultore fu scelto per l’avvio del giudizio congiunto delle due Congregazioni; i cardinali tennero conto di tutti i voti precedentemente espressi, anche di quelli tecnicamente più deboli, o giuridicamente non validi (come nel caso di Curci e Perrone), ma non ascoltarono in via preliminare alcun consultore. L’ostilità di Pio IX spiega abbastanza i ritmi che si manifestarono. Stupisce però la mancanza di senso critico del papa, perché in fondo Pio IX ignorava o “rimuoveva” quanto era accaduto in un periodo in cui, in Roma e nella Curia, la personalità e gli atteggiamenti di Gioberti erano stati oltre modo “esaltati”. Il papa era probabilmente indispettito perché, sia pure obtorto collo, ma senza particolari problemi, aveva accettato nel 1848 le tesi giobertiane sotto il profilo politico e anche in parte ecclesiologico, e perché aveva pure tollerato l’antigesuitismo del filosofo, atteggiamento che ora gli veniva larvatamente rimproverato nella Compagnia di Gesù. Sentiva di dover in un certo senso “riparare” al suo comportamento incautamente favorevole verso il filosofo torinese.

Un dato molto curioso è che alcuni dei personaggi che si mossero pro o contro Gioberti furono anche chiamati a giudicare gli scritti di Rosmini. Il precetto del “silenzio” a rosminiani e gesuiti era stato intimato da Pio IX il 13 marzo 1851[71], proprio mentre si preparavano i giudizi su Gioberti. Mentre si concludeva la questione Gioberti vennero interessati a dare un loro “voto” sul complesso delle opere rosminiane sia il p. da Rignano che il canonico Fazzini.

Nel 1850, tra i consultori che la Congregazione dell’Indice aveva chiamato a giudicare il “libello” antirosminiano Postille, attribuita al padre Antonio Ballerini [72], che da più parti era stato ritenuto lesivo dell’onore di Rosmini, e pure falso, troviamo il padre Vercellone, ed il padre servita Gavino Secchi Murro, che poi sarà pure coinvolto nell’esame delle opere complete [73]. Come si vede siamo di fronte ad un intreccio abbastanza significativo. Fazzini, del resto, da solo, dapprima con il suo voto, e, poi, nella seduta preparatoria dell’Indice del 26 aprile 1854, si pronunciò per una solenne condanna nei confronti di Rosmini, analoga a quella pronunciata su Gioberti [74] . A mio avviso questo personaggio era stato “introdotto” nel novero dei consultori proprio per rappresentare le esigenze di controllo dell’ortodossia dai cardinali Brignole e Lambruschini [75]. Viene spontanea la domanda: si sarebbe potuto incontrare un consultore che si fosse dichiarato contrario a Gioberti, e che successivamente avesse steso un giudizio favorevole su Rosmini? Credo che sia significativo il caso del p. Antonio Maria da Rignano, che scrive un “voto” favorevole a Rosmini [76] dopo aver scritto il monumentale “voto” favorevole alla “dimissione” degli scritti giobertiani: esisteva nel francescano un modo favorevole di considerare i due pensatori, perché entrambi, per lui, avevano restaurato un’ontologia basata sul primato della realtà e dell’idealità divine. Egualmente vale il discorso opposto: la circostanza che il canonico Fazzini scrivesse un “voto” contrario alla considerazione di ortodossia di Gioberti va in perfetto accordo con la circostanza che, qualche tempo dopo, egli pronunciasse egual orientamento contro l’ortodossia 

del sistema rosminiano.

Se ne potrebbe concludere che la presa di distanza netta che Rosmini manifestò nei confronti di Gioberti proprio quando si aprì l’esame delle opere del Roveretano davanti all’Indice, accompagnata da ogni sforzo per non legare né speculativamente né politicamente le idee di questi alle idee proprie [77], non raggiunse lo scopo di rendere favorevoli a Rosmini gli avversari di Gioberti. Si verificò qualcosa di molto significativo: i consultori in genere ritennero che le stesse accuse rivolte a Gioberti andassero rivolte, se pure con modalità diverse, anche a Rosmini. E, nel contempo, uomini che furono favorevoli a dichiarare l’ortodossia delle dottrine giobertiane, ebbero eguali attenzioni anche nei confronti di Rosmini. In altre parole, nonostante le avversità tra i due pensatori, e nonostante le differenze tra i loro sistemi, si verificò un accostamento di fondo tra le loro dottrine. Non si può allora non dare ragione al giudizio, forse “meta-storico”, di Del Noce, che vede il comune destino dei nostri due maggiori pensatori dell’Ottocento nell’ontologismo inteso in un senso non più tecnico, ma molto ampio, di legame profondo con il divino nella mente umana e nelle stesse fibre morali e volitive dell’uomo. Il giudizio di Del Noce supera l’ontologismo “storico” e quindi abbisogna di una verifica molto rigorosa, ma certamente fattibile, sulla possibilità di accostare nel nome dell’Essere due modi d’intendere il legame con il divino e la divinità.

 

 

4. L’ontologismo dopo Gioberti

 

Esaminiamo ora molto brevemente la diffusione dell’ontologismo grazie al successo delle opere giobertiane “metafisiche”, e soprattutto il ritorno da parte della cultura francese e belga ad una filosofia cristiana che si riallacciasse alle fonti agostiniane e medievali (Bonaventura e Gerson), e che poi si spingesse a rivalutare Malebranche e Gerdil. La condanna del 1852 non costituì motivo immediato di arresto della diffusione delle idee giobertiane, anche perché la proibizione delle opere del pensatore torinese venne vista da molti come un provvedimento contingente, segnato da parecchie motivazioni politiche. In tal modo l’ontologismo si sviluppò in Europa con vigore e con ampiezza di adesioni.

Le tendenze anti-ontologistiche, tuttavia, aumentarono di spessore e di peso. Abbiamo già detto dei pensatori neotomisti, che operavano nella “Civiltà cattolica”, e che avevano di mira il pensiero di Gioberti e pure quello di Rosmini. Ma gli avversari dell’ontologismo si organizzarono anche contro altri esponenti del movimento. Si realizzò da parte di molti, nella Curia romana e poi anche altrove, che in maniera sotterranea, ma chiara, le dottrine di Gioberti erano ispiratrici delle dottrine che si diffondevano nel clero francese ed italiano, nonché belga, e che le tendenze ontologistiche già forti in queste nazioni erano state incoraggiate dagli scritti del pensatore italiano. Si pensò allora di compiere quel passo verso la condanna delle dottrine che non era stato compiuto nel 1852, nella concitazione di ottenere una condanna ad personam. Il periodo che va dalla prima decisione del Santo Uffizio alla più incisiva e forte decisione di condanna di proposizioni qualificate per ontologistiche, costituisce un periodo di discussioni e di contrasti, durante il quale si costituiscono alcune posizioni fondamentali. La cultura francese, soprattutto, ritiene che, sulla via di una filosofia cristiana che si ponga in grado di contrastare i molti attacchi alla spiritualità ed alla moralità che provengono da dottrine ispirate a pensatori moderni anticristiani, la dottrina che pone in Dio il criterio dell’affermazione di verità sia la più adeguata. Di contro le posizioni antigiobertiane ed antirosminiane dei gesuiti, congiunte alle posizioni di diversi esponenti del clero francese e belga, avverse soprattutto all’insegnamento impartito presso l’Università di Lovanio, colgono nella diffusione del pensiero di Gioberti e nella ripresa dell’ontologismo più “classico”, un pericolo per la solidità della fede, minacciata di risolversi in posizioni immanentistiche ed autonomistiche [78]. Consideriamo brevemente le posizioni contrapposte.

La definizione più appropriata di ontologismo che gli ontologisti francesi e belgi forniscono proviene da un esponente del movimento che si cela sotto lo pseudonimo di “Jean Sans Fiel”. La posizione fondamentale dell’ontologismo sta nel fatto, secondo questo studioso, che la mente è capace della “perception immédiate de l’Etre absolu” [79]. La posizione di Gioberti è tenuta presente, ma viene trascurata l’impostazione iniziale di essa, cioè la dottrina della formola ideale. Ben pochi riferimenti, infatti, sono rivolti al giudizio della formola ideale che sostiene la tesi secondo cui la mente intuisce l’Essere assoluto immediatamente. Anche l’abate Jules Fabre d’Envieu si limita alla fase della percezione immediata, in quanto ritiene che l’ontologismo sia un sistema “qui admet dans l’âme humaine une connaissance immédiate de Dieu” [80]. L’immediatezza significa certamente quello che per Gioberti significava l’intuito dell’atto creativo divino; però la connessione metafisica con la creazione non viene esplicitata. Su questa immediatezza, che indica la dipendenza della mente non tanto da concetti e da immagini elaborate, quanto da un’illuminazione capace di rendere poi intelligibile il reale percepito e pensato, si aprì la discussione.

Il punto di frizione tra ontologisti ed avversari non sta nel concetto di “conoscenza immediata (o percezione immediata) dell’Essere assoluto”, ma in ciò che segue. Gli avversari della posizione ontologistica affermano infatti che nella concezione di Gioberti e dei suoi seguaci lo spirito umano vede Dio “immediatamente ed in se stesso” e vede in lui tutte le cose. Si pensi anche alle sgangherate accuse di Fazzini, che, nella loro esagerazione, si fanno portatrici dell’interpretazione dell’ontologismo come dottrina dell’immedesimazione della mente con l’essenza divina. Con questa interpretazione gli avversari dell’ontologismo intendevano sottolineare la distanza del movimento dall’ortodossia cattolica. Uno dei più polemici avversari dell’ontologismo, il gesuita p. Henri Ramière, afferma: “Voir Dieu en lui même c’est le voir sans aucun intermédiaire, non par une idée, mais dans sono être, de manière que l’intelligence se termine à l’être même de Dieu et atteigne sa substance”[81].

Questa riserva di fondo spiega perché si giunse alla condanna, da parte della Congregazione del Santo Uffizio, di sette tesi indicate come “ontologiste”[82]. Le circostanze che portarono al pronunciamento romano non possono qui neppur minimamente essere esposte. Di tutta la complicata vicenda si è occupato Giacono Martina [83], ed ora se ne sta occupando Johan Ickx [84]. Per sintetizzare si può dire che la dottrina ontologistica, che era stata vista dagli esponenti del Santo Uffizio in Gioberti e che aveva contribuito a far condannare le sue opere, venne esplicitata, attraverso una serie di analisi terminologiche dei consultori, al fine di poter fermare ora il successo di docenti di università francesi e belghe. Ne risultarono sette (oh la suggestione dei simboli!) proposizioni che in un certo senso contenevano il succo della dottrina contenuta nelle opere di Gioberti e che soprattutto identificavano le dottrine ancora insegnate in diverse università cattoliche francesi e belghe. Il termine ontologismo entrò con questa sentenza nella consuetudine polemica, e fu da allora in poi adoperato come sinonimo di dottrina erronea.

La prima proposizione condannata suonava così: “Immediata Dei cognitio, habitualis saltem, intellectui humano essentialis est, ita ut sine ea nihil cognoscere possit: siquidem est ipsum lumen intellectuale”. E la seconda suonava, di rincalzo: “Esse illud, quod in omnibus et sine quo nihil intelligimus, est esse divinum” [85]. Era chiaro che, con la condanna di queste due proposizioni, ritenute il punto nodale della prospettiva ontologistica, si intendeva condannare la dottrina che faceva consistere la conoscenza umana nell’intuizione dell’Essere divino. Era però altrettanto chiaro che gli ontologisti non si ritennero colpiti direttamente dalla condanna di queste due proposizioni (come, del resto, anche delle altre), perché affermarono di non aver mai professato le dottrine in esse compendiate. Il problema stava in quella conoscenza diretta di Dio, di quell’essere senza cui nulla era possibile conoscere. Il senso dell’affermazione che quell’essere era l’Essere reale di Dio, si trovava tutto nella affermazione che esso poteva venire conosciuto “in sé”. Nessun ontologista riteneva di aver mai affermato ciò.

A mio avviso, nelle accanite discussioni che seguirono il decreto e nelle successive diatribe riguardanti l’insegnamento dell’ontologismo nell’Università di Lovanio, si perse di vista l’impostazione giobertiana che, con la dottrina della formola ideale, aveva ritenuto di poter evitare gli scogli derivanti dal fatto di porre la conoscenza “in sé” della natura dell’Essere. I riferimenti, legittimi, alla grande tradizione medievale, che furono fatti con abbondanza dagli ontologisti nel periodo delle polemiche sulla legittimità di considerare erronee le loro posizioni, non spostarono il problema, rimanendo gli interlocutori arroccati sulle proprie posizioni. La lotta avrebbe potuto durare a lungo, visto che gli ontologisti non si ritenevano toccati dal decreto del 1861, avendo calibrato meglio le loro posizioni. Inoltre, essendo mancata una condanna dell’ontologismo entro il Concilio Vaticano I, nonostante gli sforzi di parecchi vescovi e cardinali di inserire quella dottrina in un elenco di errori da condannare mediante un decreto conciliare [86], non potevano esistere elementi determinanti per proibire l’insegnamento della dottrina della Visione ideale, almeno nei termini che avevano adoperato Gerdil ed i barnabiti.

Una svolta effettiva nella questione ontologistica si ebbe quando, con il nuovo papa Leone XIII, fu proposto per decreto lo studio della filosofia di S. Tommaso, e l’applicazione di tale decreto, per le scuole cattoliche, fu demandato ai tomisti dall’orientamento più rigido e lontano dalle dottrine dell’Illuminazione. Data la difficile situazione della Chiesa, minacciata dall’indifferentismo, dal separatismo religioso e, via via, da tendenze molto aggressive come il materialismo, l’evoluzionismo e, in genere, l’immanentismo, si ritenne che il pensiero cristiano dovesse concentrarsi nella lotta alle pericolose dottrine, rinunciando ad una pluralità di posizioni che poteva indebolire il fronte di contrasto ai nemici della Chiesa e della religione. La sorte avversa all’ontologismo fu segnata dal fatto che, condannato in un momento in cui si tendeva a togliere spazio alle visioni con “eccesso di spiritualismo”, per fare spazio a concezioni chiaramente realistiche, le quali offrivano fondamento alla centralità della Chiesa, venne poi ulteriormente respinto dalle indicazioni papali che penalizzavano, nell’eredità della Scolastica, tutta la corrente agostiniano-francescana.

 

 

5. L’ontologismo come “esagerazione” di una tendenza legittima nel pensiero cristiano?

 

La posizione più corretta relativamente all’ontologismo nella sua storia ottocentesca, fatta di polemiche e condanne, potrebbe essere questa: l’ontologismo è il frutto di un’esagerazione generosa, ma, entro certi limiti, foriera di fraintendimenti. I pensatori francesi, belgi ed italiani soprattutto, eredi di Malebranche e di Gerdil, cioè di due grandi pensatori cristiani, spronati alla loro impresa dalle generose e sovrabbondanti pagine giobertiane, non hanno saputo comprendere, in un momento forse di forte preoccupazione per le sorti del pensiero cristiano, minacciato dal sensismo e dal naturalismo, che le posizioni sensistiche e pure soggettivistiche si contrastano con posizioni mediate e non esasperate. Mi pare che in questa valutazione ci sia molta sensatezza, e che il giudizio da portare sull’ontologismo debba tenere conto soprattutto dell’ambiguità sovente dimostrata da Gioberti nello sviluppo del suo pensiero, cioè negli scritti pubblicati postumi. Infatti il pensatore torinese oscillò sempre, durante tutti i periodi della sua produzione, tra la ripresa delle dottrine di matrice agostiniano-bonaventuriana ed una specie di “fuga in avanti” relativamente alla formola ideale, verso una filosofia dello sviluppo storico in cui i legami con taluni aspetti dell’hegelismo, ed in genere con movenze dell’immanentismo romantico erano evidenti [87]. Nella valutazione che fu fatta delle posizioni giobertiane entrarono spesso le diffidenze che suscitarono le indubbie esagerazioni del pensatore nei confronti della destinazione “civile” delle sue idee sulla rivelazione.

L’ontologismo che prese da lui ispirazione, però, assimilò più la prima ispirazione genuina, quella agostiniano-bonaventuriana, ritenendo che la vera riforma del pensiero cristiano andasse nella direzione di una dottrina collegata saldamente al tema del divino. Questo aspetto della diffusione del pensiero giobertiano non presenta elementi di ambiguità. Gioberti non si distingue, nelle sue posizioni, da nessun pensatore che prima di lui (da Malebranche a Gerdil) abbia inteso, nel solco della grande tradizione agostiniana, valorizzare il criterio della verità come illuminazione. Le “esagerazioni” dell’ontologismo ottocentesco stanno tutte nella polemica instaurata contro coloro i quali ritenevano improponibile un’interpretazione “forte” della dottrina dell’Illuminazione. Esse trovano una loro giustificazione nella concitazione dei tempi, e non possono essere fatte passare per una difetto intrinseco della posizione, come pensarono gli avversari accaniti di essa.

Nel giudizio, ad esempio, che A. Fonck formula sulla sorte dell’ontologismo, considerato come una posizione ormai “vinta”, e soltanto fastidiosa da trattare per la quantità degli scritti che ha generato, si fa notare che è stata una caratteristica degli autori da Malebranche a Gioberti, fino poi a Hugonin, di appoggiare le proprie pretese di rappresentare la posizione ortodossa sopra i Padri e i Dottori, ricorrendo ad ogni sorta di artificio per dimostrarli dalla loro parte [88]. Tale valutazione appare ingenerosa, se solo si pensa ai molteplici tentativi esperiti nell’Ottocento per presentare la filosofia come un’attività razionale ed insieme legata profondamente allo spirito del Cristianesimo, cioè ad una religione che permetteva ed anzi “sollecitava” l’unione stretta tra intuito intellettuale e l’intuito della fede e della mistica, in una scala di gradazioni molto ricca, e perennemente alimentata dalle riflessioni di grandi spiriti [89]. L’ontologismo non è che la punta emergente di una specie di tensione “sommersa” di pensatori e di uomini di religione, i quali ritengono che l’essere, nelle sue varie forme anche divinamente esplicate, sia l’oggetto primo, nella sua luce, della conoscenza umana e della stessa fede che nel Cristianesimo trova la sua esplicitazione. Una notevole quantità di espressioni esegetiche di autori ottocenteschi ha pure attribuito a S. Tommaso una posizione non solo ed esclusivamente legata alla visione astrattiva, ed una tendenza fondamentale a porre nell’essere l’oggetto primo di ogni conoscenza, con la conseguenza che resta possibile ragionare di esso come del punto di riferimento anche divino [90].

I neotomisti della generazione, ad esempio, di Cornoldi e Zigliara, e pure quelli delle successive generazioni formate dal “tomismo romano”, fino allo stesso padre Guido Mattiussi, con le sue Ventiquattro tesi tomistiche [91], hanno ritenuto che le posizioni tomistiche non andassero intese nella direzione di un’intuizione dell’essere quale oggetto primario per l’intelligenza. Essi pertanto hanno imposto alla cultura cattolica la via interpretativa di tipo “astrattivistico” come quella che nel medioevo aveva rappresentato l’autentica visione della verità e del rapporto tra natura divina e conoscenza umana. Scelta scarsamente rispettosa dei testi tomistici, se è vero, come oggi è accaduto di fronte a raffinate indagini testuali dovute a programmi ipertestuali per i computer, che gli studiosi debbono ammettere che le espressioni tomistiche riguardanti l’essere come oggetto di intuito sono molte e tutte capaci di confermare una tendenza anche nell’Aquinate verso una valorizzazione della via intuitivistica accanto alla via astrattivistica, naturalmente permanente e pure forte, ma non esclusiva [92]. In altre parole: il lume della ragione anche in Tommaso ha le caratteristiche di una capacità di intuire l’essere che si lega al carattere dell’essere quale nozione e forma insieme per la mente.

Gioberti seppe innestare su una ripresa partecipata e ricca di spunti della tradizione platonico-agostiniano-bonaventuriana un’altrettanto partecipata teoria dell’uomo e della società. Egli prese le difese della visione ontologistica nell’intento di portarla a significare anche un primato dell’umano-divino come condizione del tutto particolare, tale da difendere le prospettive dei pensatori cristiani nelle polemiche del loro tempo, addirittura tale da porli in condizioni di leadership nei confronti delle filosofie di stampo immanentistico. Le sorti dell’ontologismo da lui riproposto furono tuttavia legate alle polemiche interne ai pensatori cristiani, con la conseguenza di una serie di fraintendimenti sulla genuinità della dottrina intuitivista della verità, e con la conseguenza di un irrigidimento autoritativo della Chiesa. Se il pensiero di Gioberti potrà essere riconsiderato e riesposto nella valorizzazione delle sue acute e spesso geniali proposte, distinguendo comunque bene le posizioni di partenza e le posizioni di sviluppo ulteriore, non vi è dubbio che la stessa prospettiva ontologistica ne trarrà il vantaggio di essere considerata come una delle più sincere espressioni della filosofia ottocentesca, nella sua evidenziazione della rivelazione religiosa e della posizione creazionistica.

 

 



[1] Cfr. il testo delle proposizioni in H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et moribus, a cura di P. Hünermann, Edizioni Dehoniane, Bologna 1996, nn. 2841-47 (successivamente si citerà come: Denzinger-Hünermann).

[2] Cfr. tra i molti scritti di P. Carabellese su questo tema: L’idealismo italiano. Saggio storico-critico, Edd. Italiane, Roma 1946; Da Cartesio a Rosmini. Fondazione storica dell’ontologismo critico, Sansoni, Firenze 1946. Cfr. la recente monografia di F. Ottonello, La logica “magica” dell’ontocoscienzialismo. Note sull’ultima fase del pensiero di Pantaleo Carabellese, Pantograf, Genova 1997.

[3] Cfr. T. Moretti Costanzi, Il testamento filosofico di Pantaleo Carabellese, in Giornate di studi carabellesiani, Atti del Convegno tenuto presso l’Ist. di Filosofia dell’Univ. di Bologna nell’ottobre 1960, Silva, Bologna 1964, pp. 17-29 (in quel convegno pure rilevanti per capire Moretti Costanzi ed il suo rapporto con Carabellese sono gli interventi di E. Mirri, pp. 199-205, e di T. Manferdini., pp. 247-63).

[4] Il filosofo palermitano Giulio Bonafede ha curato l’ed. di parecchie delle opere di Gioberti. Cfr. ad esempio: Protologia, 4 voll., Cedam, Padova 1983-86 [voll. XXXII-XXXV dell’Edizione nazionale (abbr.: ENG)]; Filosofia della rivelazione, ivi 1989 (vol. XXXVI dell’ENG ; Pensieri numerati, ivi 1993-95 (voll. XXXVII-XXXVIII dell’ENG). Di Bonafede cfr.: Le ragioni dell’ontologismo, Unione Tip. Editrice Siciliana, Palermo 1941; S. Bonaventura, Le Grazie, Benevento 1961.

[5] Sulla visione di Augusto Del Noce riguardo all’ontologismo ricordiamo: A. Campodonico, L’ontologismo rivisitato, in I filosofi e la genesi della coscienza culturale della “nuova Italia” (1799-1900). Stato delle ricerche e prospettive di interpretazione, Atti del Convegno di Santa Margherita Ligure, 23-25 ottobre 1995, a cura di L. Malusa, Ist. It. per gli Studi filosofici, Napoli 1997, pp. 107-17.

[6] Tra gli scritti di Riconda dedicati all’ontologismo ricordiamo: Gioberti e la filosofia torinese del 900, in Giornata giobertiana, a cura di G. Riconda e G. Cuozzo, Trauben, Torino 2000, pp. 109-21; Ontologismo e filosofia contemporanea, in Chiesa e pensiero cristiano nell’Ottocento: un dialogo difficile, a cura di L. Malusa e P. De Lucia, Brigati, Genova 2001, pp. 179-92.

[7] Cfr. A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1964, 19904.

[8] Cfr. l’enunciazione di essa in V. Gioberti, Introduzione allo studio della filosofia, t. II, Bonamici, Losanna 1846, pp. 55-60, 76-8, 225-47. La cit. dei passi giobertiani verrà fatta su questa ed., essendo l’ENG (a cura di U. Redanò) incompleta. Si citerà in seguito come: Introduzione, con il tomo e le pp.

[9]  Cfr. A. Del Noce, Ontologismo, in EF,  vol. IV, Sansoni, Firenze 19692, coll. 1181-89, ora pubblicata in: Id., Da Cartesio a Rosmini. Scritti vari, anche inediti, di filosofia e storia della filosofia, a cura di F. Mercadante e B. Casadei, Giuffré, Milano 1992, pp. 485-99.

[10] Questa tesi di Malebranche viene espressa innanzitutto nell’opera De la recherche de la vérité, l. III, parte II, cap. VI. Si veda nell’ed.: N.  Malebranche, Oeuvres, a cura di G. Rodis-Lewis e G. Malbril, vol. I, Gallimard, Paris 1979, pp. 338-66. Cfr. le osservazioni di chi scrive in La concezione della verità in Malebranche e Gioberti, ossia: sullo sviluppo dell’ontologismo nel pensiero moderno, in Il concetto della verità nel pensiero occidentale, a cura di M. Marsonet, Il Nuovo Melangolo, Genova 2000, pp. 61-82 (in particolare pp. 64-8).

[11] Cfr. su questo concetto giobertiano, utilizzato da Del Noce, quanto si trova nel suo Giovanni Gentile. Per un’interpretazione filosofica della storia contemporanea, Il Mulino, Bologna 1990.

[12]  Cfr. tra gli studi sul neotomismo in cui si accenna alla lotta da questo intrapresa contro l’ontologismo: L. Malusa, Neotomismo e intransigentismo cattolico, 2 voll., IPL, Milano 1986-89 (in particolare cfr. vol. I, pp. 46-51, 340-3). Si  abbrevierà il testo con  Neot.

[13] Gioberti, Introduzione, II, p. 62.

[14] Ibi, II, pp. 137-8.

[15] Ibi, II, pp. 147-8.

[16] Ibi, II, p. 162.

[17] Ibi, II, p. 163.

[18] Ibi, II, p. 164.

[19] Cfr. ibi, II, pp. 174-5.

[20] Ibi, II, pp. 178-9.

[21] Ibi, II, pp. 179-80.

[22] Ibi, II, pp. 181-2.

[23] Cfr. ibi, II, pp. 183-4.

[24] Ibi, II, p. 185.

[25] Ibi, II, p. 186.

[26] Ibi, II, pp. 193-4.

[27] Ibi, II, p. 194.

[28] Ibi, II, p. 195.

[29]  Ibi, II, pp. 213-4.

[30] Ibi, II, pp. 214-5.

[31] Ibi, II, pp. 215-6.

[32] Ibi, II, pp. 197-8.

[33] Ibi, II, p. 199.

[34] Ibi, II, p. 204.

[35] Cfr. i testi di questa condanna in Antonio Rosmini e la Congregazione dell’Indice, a cura di L. Malusa, Edd. rosminiane Sodalitas, Stresa 1999. Per un inquadramento di questo episodio cfr l’introduzione all’ed.: L. Malusa, I documenti di una condanna tra le passioni del Risorgimento ed i fraintendimenti ecclesiali, pp. XIII-CVIII.

[36] Sulle reazioni di Rosmini cfr. innanzitutto le dichiarazioni ed i documenti da lui raccolti per la preparazione del suo lavoro Della missione a Roma di Antonio Rosmini-Serbati negli anni 1848-49. Commentario, a cura di Luciano Malusa, Edd. rosminiane, Stresa 1998. Si citerà il testo rosminiano con il seguente criterio: MR, con Com., e le pp., nel caso della citazione dal Commentario; MR con Doc. o Docc., con il numero dei documenti e le pp., nel caso della citazione dall’appendice dei documenti.

[37] Cfr. per uno studio delle reazioni di Gioberti: P. Pirri, Vincenzo Gioberti e la Sacra Congregazione dell’Indice, CC, 1927, vol. IV, pp. 11-28, 201-19 (ricostruzione incompleta ed imprecisa).

[38] Cfr. il testo dell’appello dei vescovi in “L’Armonia”, 30 gennaio 1850, n. 13. L’indirizzo, nella stesura originale, con le firme dei vescovi, si trova negli incartamenti della Congregazione dell’Indice (Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede [ACDF], fondo Indice, II.a.117, n. 6: sono 2 ff. scritti r-v).

[39] Cfr. Antonio Rosmini e la Congregazione dell’Indice, cit., pp. 12-3.

[40] L’opera di Curci, Una divinazione sulle tre ultime opere di Vincenzo Gioberti, i Prolegomeni, il Gesuita moderno e l’Apologia, G. Renouard e Poussielgue-Rusand, Paris 1848-49, 2 voll., fu diffusa soprattutto presso la Curia papale, nel periodo cruciale di Gaeta, e fece molta impressione, in quanto attribuiva all’azione politica e ideologica di Gioberti buona parte degli eventi che avevano funestato la tranquillità e la sicurezza della Chiesa. Curci aveva in precedenza contrastato Gioberti con lo scritto: Fatti e argomenti in risposta alle molte parole di Vincenzo Gioberti intorno ai gesuiti nei Prolegomeni dal Primato, Stamperia del Fibreno, Napoli 1845.

[41] Cfr. T. Zarelli, Il sistema filosofico di Vincenzo Gioberti, Sarlier, Paris 1848 (ma in realtà il vero editore era: Paternò, Roma 1848); Id., Il sistema teologico di Vincenzo Gioberti, Sarlier, Paris 1848. Nel 1850 (Bologna, Sassi) l’opera che unificava i due scritti, Il sistema filosofico e teologico di Vincenzo Gioberti, apparve con il vero nome dell’autore.

[42] Sono noti gli scritti che segnano la fiera polemica tra i due pensatori. Michele Tarditi, che sembrava essere seguace del filosofo torinese ed invece si era avvicinato al Roveretano, scrisse quattro Lettere d’un rosminiano a Vincenzo Gioberti, Favale, Torino 1841, in cui criticava sia i cenni a Rosmini contenuti nella Teorica del sovrannaturale che le critiche dell’Introduzione allo studio della filosofia. Gioberti scrisse allora, infuriato per questo intervento, in cui vedeva la sollecitazione dell’avversario, l’opera Degli errori filosofici di Antonio Rosmini, vol. I, Hayez, Bruxelles 1841; n. ed. in 3 voll. Meline, Bruxelles 1843-44 (cfr. l’opera, con le aggiunte, a cura di U. Redanò, Bocca, Milano 1939, EN, voll. VIII-X). Rosmini rispose, successivamente, con alcuni articoli di “basso profilo”, anonimi, in cui però riteneva di aver colto i punti deboli ed insostenibili del sistema giobertiano: Vincenzo Gioberti e il panteismo. Lezioni filosofiche, “Il Filocattolico”, I, 1846 (l’estratto, che corregge i molti errori tipografici, appare sia a Milano, Boniardi-Pogliani, che a Napoli, Tramater, 1847). Lo scritto venne pubblicato, con ampliamenti, con il nome di Rosmini, solo nel 1853 da Giusti, a Lucca [cfr. ora l’opera nell’Edizione nazionale (EN) delle opere di Rosmini, vol. XLI, a cura di R. Orecchia, Cedam, Padova 1970].

[43] A riprova del fatto che Caroli si era avvalso degli argomenti di Rosmini per combattere Gioberti sta il carteggio tra i due. Il francescano si pone in contatto, giovanissimo, con Rosmini, nel 1843. Si vedano comunque alcune lettere tra di loro scambiate: Caroli a Rosmini, 4 settembre 1849, con espressioni di solidarietà in occasione della condanna (in MR Doc., LXIX/4, pp. 546-7); Rosmini a Caroli, in risposta, 8 settembre 1849, in A. Rosmini, Epistolario completo, 13 voll., Pane, Casale Monferrato 1887-94 (d’ora innanzi: Ep.), X, pp. 598-9; e poi varie di Rosmini: 5 novembre 1851 (Ep., XI, pp. 136-7), 14 novembre 1851 (Ep., XI, pp. 140-1), 19 aprile 1852 (Ep., XI, p. 245), 17 giugno 1852 (Ep., XI, pp. 298-9), 17 novembre 1852 (Ep., XI, p. 417). Le lettere di p. Caroli sono tutte, inedite, in ASIC.

[44] Una preoccupata sottolineatura della paradossale situazione, che vede Rosmini in un certo senso posto “dalla parte sbagliata”, viene fatta da Rosmini nelle ultime pp. del Commentario della missione a Roma. Cfr. MR Com., p. 172-173.

[45] Cfr. le osservazioni di chi scrive in I documenti di una condanna tra le passioni del Risorgimento ed i fraintendimenti ecclesiali, pp. XXXIII-LII.

[46] Cfr. Principii della scuola rosminiana, Arzione, Milano 1850, vol. I. Il vol. II non venne autorizzato neppure dal p. generale della Compagnia di Gesù, ma uscì egualmente, litografato.

[47] Cfr. su questo complessivo atteggiamento le mie osservazioni nel saggio: Per una comprensione delle difficoltà del dialogo tra Chiesa e pensiero cristiano nell’Ottocento, introduzione a: Chiesa e pensiero cristiano nell’Ottocento: un dialogo difficile, cit., pp. 30-1.

[48] Cfr. V. Gioberti, Discorso preliminare in Id., Teorica del sovrannaturale, Tip. Elvetica, Capolago 1850, vol. I. Si veda ora l’opera in ENG, vol. XXIV, a cura di A. Cortese, Cedam, Padova 1970 (l’ed. comprende anche i voll. XXV-XXVI, ivi 1972). Si tenga presente per le reazioni di Gioberti alle critiche di Zarelli la lettera da lui inviata a Giovanni Napoleone Monti, da Parigi, il 2 marzo 1850, in V. Gioberti, Epistolario, ENG a cura di G. Gentile e G. Balsamo Crivelli, vol. X, Vallecchi, Firenze 1937, pp. 28-9. Gioberti, assimilando Zarelli a Curci, e considerandolo un perfetto ignorante e travisatore dei suoi testi, non immaginava di certo l’ispirazione rosminiana delle opere di Caroli. Cfr. anche la lettera all’abate Luigi Pacchiani, del 4 marzo 1850, sempre ivi, p. 32.

[49] Cfr. come testo significativo dell’antiontologismo, che divenne un po’ la bandiera dei gesuiti neotomisti: M. Liberatore, Della conoscenza intellettuale, Ufficio della CC, Roma 1857, 2 voll.

[50] Gli incartamenti che contengono gli atti del processo sono tre: due della Congregazione dell’Indice, segnati rispettivamente: ACDF, fondo Indice, II.a. 117 e XXXI.29, ed uno della Congregazione del Santo Uffizio, segnato: ACDF, fondo S. O., St. St. E-d. 5 (bis).

[51] Il “voto” di Curci si trova in ACDF, fondo Indice II.a. 117 e XXXI.29, e pure nell’incarto ACDF, fondo S. O., St. St. E-d. 5 (ter).

[52] Il “voto” di Vercellone, stampato ad uso interno dell’Indice, porta quale titolo: Opinamenti intorno alle opere di Vincenzo Gioberti, e consta di 23 pp. Esso si trova in ACDF, Fondo Indice, XXXI.29, e pure in ACDF, fondo S. O., St. St. E-d. 5 (bis). Questo contributo è stato pubblicato prima dell’apertura degli archivi, grazie alla copia posseduta da Vercellone che è stata ritrovata nell’archivio dei Barnabiti in S. Carlo dei Catinari, in Roma, da S. Pagano. Cfr.: Carlo Vercellone e la condanna delle opere di Vincenzo Gioberti, “Barnabiti. Studi”, IV, 1987, pp.   35-52; il saggio occupa le pp. 7-62.

[53]  Il “voto” di Antonio Maria Fania da Rignano, stampato ad uso interno dell’Indice, porta quale titolo: Giudizi o parere sopra tutte le opere di Vincenzo Gioberti, e la data: 25 marzo 1851. Consta di 180 pp. (di cui però le pp. 133-80 sono dedicate ad un’appendice sull’opera del p. Caroli). Esso si trova sia in ACDF, Fondo Indice, II. a. 117, XXXI.29, e pure in ACDF, fondo S. O., St. St. E-d. 5 (bis).

[54] Il “voto” di Fazzini, Sulle opere di Vincenzo Gioberti, che consta di 26 pp. a stampa ad uso interno della Congregazione (porta la data del 22 maggio 1851), si trova in ACDF, Fondo Indice, II.a.117.

[55] Fazzini, Sulle opere di Vincenzo Gioberti, pp. 9-10.

[56] Ibi, p. 15.

[57] Ibi, pp. 15-6.

[58] Ibi, p. 24.

[59] Antonio da Rignano, Giudizi o parere sopra tutte le opere di Vincenzo Gioberti, p. 134.

[60]  Ibi, p. 180.

[61] Ibi, p. 7.

[62] Ibi, pp. 52-92.

[63] Ibi, p. 127.

[64] Vercellone, Opinamenti intorno alle opere di Vincenzo Gioberti, p. 50.

[65] Cfr. il giudizio altamente positivo degli scritti di Gerdil, ed in particolare di quelli su Malebranche: Vercellone, Opinamenti intorno alle opere di Vincenzo Gioberti, pp. 42-7.

[66] Cfr. ACDF, Fondo S. O., St. St. E-5.d (bis).

[67] Sulle tendenze ontologistiche nella Compagnia di Gesù cfr. il mio Neot., vol. I: Il contributo di Giovanni Maria Cornoldi per la rinascita del tomismo, IPL, Milano 1986, pp. 342-3; e vol. II: Testi e documenti per un bilancio del neotomismo, ivi 1989, pp. 297, e 337-8. Sulle vicende che portarono alla condanna di queste tendenze, ed in particolare delle opere del p. Rothenflue, cfr. A. Giovagnoli, Dalla teologia alla politica. L’itinerario di Carlo Passaglia negli anni di Pio IX e Cavour, Morcelliana, Brescia 1984, pp. 192-6.

[68] Cfr. gli atti della seduta delle due Congregazioni cardinalizie congiunte, in ACDF, Fondo S. O., St. St., E-d. 5 (bis).

[69]  Le asserzioni di mons. Caterini si trovano nel verbale della seduta avvenuta in “Feria IV”, cioè mercoledì 14 gennaio 1852, presso il Convento di Santa Maria Sopra Minerva. Di questa seduta il verbale ufficiale si trova in ACDF, Fondo S. O., Decreta, 1852. Cfr. anche ACDF, Fondo S. O., St. St., E-d. 5 (bis), incartamento in cui si trova il testo della solenne condanna, mai pubblicata.

[70] Probabilmente per questo motivo il p. Martina, nel suo Pio IX (1851-66), Editrice Pontificia Univ. Gregoriana, Roma 1986, non rende conto in alcun modo della dinamica della condanna del 1852 (anzi sembra ignorare che sia stata pronunciata), laddove nel vol. precedente della biografia del papa (suo Pio IX (1846-50), Editrice Pontificia Univ. Gregoriana, Roma 1974) aveva dedicato parecchio spazio alla condanna del Gesuita moderno.

[71] Cfr. G. F. Radice, Pio IX e Antonio Rosmini, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1974, p. 201.

[72] Su questo scritto anonimo, pubblicato agli inizi del 1848, senza indicazioni tipografiche, cfr. G. B. Pagani, Vita di Antonio Rosmini scritta da un Sacerdote dell’Istit. della Carità, riveduta ed aggiornata dal prof. Guido Rossi, 2 voll., Manfrini, Rovereto 1959 (la prima edizione dell’opera, anonima, era apparsa a Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1897), vol. II, pp. 366-8 (abbr.: Pagani-Rossi); e Radice, Pio IX e Antonio Rosmini, cit., pp. 188-91.

[73] Intorno all’esame delle Postille fondamentale è il Diario del p. Modena, in ACDF, Fondo Indice, I. Cfr. su tale esame lo studio di Radice, Pio IX e Antonio Rosmini, pp. 200-1.

[74] Cfr. il “voto” di Fazzini dal titolo: Esame con osservazioni delle opere di Antonio Rosmini (con una seconda parte dal titolo: Conclusioni). Questo voto era stato comunicato in via riservata a Rosmini, nel corso dell’esame delle opere.

[75] Tale ipotesi viene rafforzata dal fatto che nel 1851 Fazzini ancora non figura tra i consultori dell’Indice nella pubblicazione ufficiale della Santa Sede. Cfr. il mio saggio: I documenti di una condanna tra le passioni del Risorgimento ed i fraintendimenti ecclesiali, cit., pp. XCVII-CII. Secondo quanto scrive Pagano, nel citato saggio Carlo Vercellone e la condanna delle opere di Vincenzo Gioberti, p. 51, Fazzini fu consultore dal 1852 fino al 1868. Oltre che Canonico di 

S. Maria di Trastevere  egli fu Vicario di Ostia.

[76] Il “voto” di Antonio Maria da Rignano sulle opere di Rosmini è molto più breve rispetto all’analogo voto sulle opere giobertiane. Cfr. Pagani-Rossi, II, p. 391.

[77] Nella lettera al procuratore Bertetti, del 1° ottobre 1851 (Ep., XI, pp. 377-8), Rosmini afferma di non aver risposto mai direttamente a Gioberti non tanto per lasciare correre i suoi evidenti errori filosofici, quanto perché intendeva essere propositivo, e portare argomenti di costruzione al sistema della verità. In luogo di distruggere il sistema altrui, vuol dire Rosmini, io ho pensato di affrontare le diverse parti del sistema della verità, respingendo semmai, in fase di dimostrazione, determinate posizioni giobertiane. Rosmini suggerisce a Bertetti di far notare ai prelati romani che si stanno occupando contemporaneamente di lui e di Gioberti che di recente (1850) ha confutato in modo costruttivo le tesi giobertiane nei capitoli della Psicologia. Inoltre ci tiene a sottolineare di non aver quasi mai risposto alle opere di critica nei suoi confronti (sarebbero stati circa trenta gli scrittori che lui non ha confutato), e di non aver ritenuto pericolosa la posizione di Gioberti, proprio nel Piemonte, dove lui ha fissato la sua attività. Tuttavia promette uno sviluppo significativo alle sue confutazioni antigiobertiane nella Teosofia, che annuncia di star preparando con alacrità. Sulle preoccupazioni di Rosmini per differenziarsi in tutto da Gioberti cfr.: L. Malusa, Rosmini e Gioberti nella testimonianza di un documento inedito, RSF, LIV, 1999, pp. 627-44.

[78] Rilevante per una documentazione sulle tesi antiontologistiche presenti in Europa dopo la condanna delle opere di Gioberti, è lo scritto di J. Kleutgen, Ueber die Berutheilung des Ontologismus durch den H. Stuhl, Theissing, Münster i. W. 1868; trad. it. L’Ontologismo e le sette tesi, censurate dalla sacra Inquisizione, Tip. Della CC, Roma 1868.

[79] Jean Sans Fiel, De l’orthodoxie et de l’ontologisme modéré et traditionnel, Nancy et Paris 1869, p. 5.

[80] J. Fabre d’Envieu, Réponse aux lettres d’un sensualiste contre l’ontologisme, Paris 1864, p. V.

[81] L’osservazione di Ramière si trova espressa sulla “Revue du monde catholique””, 1864, t. X, p. 187. Essa è riportata in A. Fonck, voce Ontologisme, in Dictionnaire de Théologie catholique, vol. XI, I, a cura di A. Vacant, E. Mangenot, E. Amann, Letouzey et Ané, Paris 1931, col. 1002.

[82] Sulle vicende che portarono alla condanna cfr. la voce di Fonck, Ontologisme, coll. 1047-55.

[83] Cfr. Martina, Pio IX (1851-66), cit., pp. 617-21.

[84] Cfr. J. Ickx, Gerard Casimir Ubaghs, l’Indice e la Suprema Congregazione del Sant’Offizio, in Chiesa e pensiero cristiano nell’Ottocento: un dialogo difficile, pp. 145-59.

[85] Cfr. Denzinger-Hünermann, nn. 2841-42, pp. 1010-11.

[86] Sul tentativo di porre in esame da parte del Concilio un documento sottoscritto da parecchi vescovi, tra cui il card. Pecci e il card. Riario Sforza, cfr. il mio Neot., vol. I, cit., p. 345n. Il Postulatum di Pecci fu pubblicato per la cura del p. Cornoldi nell’articolo: Insubordinazioni rosminiane, CC, s. XIV, vol. I, 1889, pp. 281-8.

[87] Cfr. su queste oscillazioni: G. Cuozzo, Le dottrine religiose nel Gioberti delle opere postume: la condanna a confronto con le opere “acroamatiche”, in Chiesa e pensiero cristiano nell’Ottocento: un dialogo difficile, pp. 97-119.

[88] Cfr. Fonck, Ontologisme, coll. 1000-61.

[89] Sul tema dello stretto legame tra intuizione intellettuale, filosofica e mistica cfr. le posizioni dibattute nel corso del Convegno Il linguaggio della mistica, tenuto a Cortona, il 6 e 7 ottobre 2001, con la partecipazione e le relazioni di E. Mirri e M. Malaguti, cui sono seguiti, tra gli altri, gli interventi di: D. Conci, G. Derossi, L. Malusa, A. Manno, F. L. Marcolungo, L. Mauro, A. Pieretti, Cfr. gli Atti, ESI, Napoli 2002.

[90]  Cfr. ad esempio l’interpretazione di Sebastiano Casara, pensatore veneziano, esponente di primo piano delle Scuole di Carità di Venezia, in uno dei suoi scritti più significativi: La luce dell’occhio corporeo e quella dell’intelletto, Grimaldo, Venezia 1857, Spagliardi, Parabiago 18792 (in quest’ed. in appendice Casara ha posto un’esposizione delle dottrine di S. Bonaventura). Cfr. L. Malusa, La fedeltà al “lume della verità”, in Padre Sebastiano Casara secondo fondatore dell’Istit. Cavanis, a cura di D. Beggiao, Ist. Cavanis, Roma s.a. (ma 1999), pp. 73-136.

[91]  Cfr. l’elenco di queste tesi in C. Giacon, Le grandi tesi del tomismo, Patron, Bologna 19672.

[92] Cfr. F. Percivale, Tommaso rivisitato, RR, XCIII, 1999, pp. 197-225.

 

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