Rubini Maria, Severini Fulvia


Dalla concezione etica dell'utilitarismo al principio di utilità in politica

L'utilitarismo moderno nasce in Inghilterra tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo in un contesto sociale in forte espansione economica e si pone come base di un pensiero etico per una società trasformata dallo sviluppo industriale e dalle intense attività commerciali che hanno mutato l'aspetto urbanistico delle città e delle campagne e di conseguenza hanno determinato la nascita di nuove classi sociali.
L'ottimismo dei fisiocrati che vissero i cambiamenti economici li portava a pensare che il progresso economico avrebbe comportato l'aumento del benessere di tutte le classi sociali, e che, in ogni caso, non avrebbe mai potuto danneggiarne alcuna. Gli avvenimenti però che si svilupparono in Inghilterra negli ultimi trent'anni del XVIII secolo dovevano smentirli severamente e nel modo più completo. In questo periodo, infatti, si aggravò in tutto il paese la situazione delle classi più povere; e questo fatto si verificò proprio a causa del notevole progresso verificatosi nelle tecniche della produzione industriale ed era dovuto appunto all'invenzione delle prime macchine di tipo moderno.
Henri Denis ci descrive i cambiamenti operati dal progresso in Gran Bretagna e le reazioni del proletariato di questo paese:

"Le prime macchine vennero introdotte, innanzitutto, nelle fabbricazione dei filati dei tessuti di cotone. Hargreaves inventò nel 1765 la jenny, una specie di arcolaio perfezionato che, sin da quando venneinstallato, permise la lavorazione di otto fili per volta. Era azionato a mano e potè essere adoperato da lavoratori a domicilio. Nel 1771 Arkwright organizzò una filanda in cui si utilizzava la Water-Frame, una macchina per filare che era messa in movimento dalla forza dell'acqua corrente.
Nel 1779 Crompton combinò poi insieme i vantaggi delle due prime invenzioni; e nel 1785, infine, Cartwright costruì un telaio meccanico per la tessitura delle stoffe di cotone, che finì per rinnovare completamente l'industria tessile.
Del resto, in quello stesso anno, cominciò a funzionare la prima filanda che utilizzava l'energia della macchina a vapore già inventata da Watt.
Queste invenzioni, che abbassavano enormemente i costi dei tessuti, determinarono uno sviluppo rapidissimo della produzione. [...]
I progressi dell'industria del cotone ebbero, d'altra parte, un andamento molto irregolare. Per alcuni anni si aprirono molte fabbriche, ma poi la produzione divenne superiore alla domanda, sicché o cessò di crescere o addirittura regredì.
Nel 1788 e nel 1789 molte aziende licenziarono una parte del loro personale, e nel 1793 fallirono una dozzina di filande, mentre l'importazione del cotone grezzo cadeva da 35 a 19 milioni di sterline.
Anche altri rami dell'industria e specialmente quello della metallurgia cominciarono a trasformarsi in conseguenza dello sviluppo della nuova tecnologia meccanica. Solo che, a fronte dei risultati positivi come l'aumento della produzione e la diminuzione dei costi, sta il fatto che la trionfale espansione dell'industria moderna venne accompagnata metodicamente da una concentrazione, nelle città industriali, di un proletariato miserabile, e il problema del pauperismo assunse delle forme nuove e ancora più gravi.
Gli operai ritennero sempre, in quel tempo, che l'introduzione delle macchine facesse pesare su di loro una concreta minaccia di disoccupazione e si sforzarono quindi di ostacolare e di impedire l'avvento del macchinismo. La prime jennies di Hargreaves furono fatte a pezzi dagli operai. Nel 1779 parecchi filatoi meccanici furono presi d'assalto nella contea di Lancaster e furono distrutti.
Anche se il movimento denominato "luddismo" si limitò ad esprimersi in azioni di distruzioni delle macchine, in effetti rappresentava una rivolta di portata più generale contro il regime sociale esistente. Ma il guadagno dei salariati dell'industria era comunque, almeno all'inizio, più cospicuo di quello dei operai agricoli, e perciò la creazione delle fabbriche attrasse grandi masse di lavoratori verso i centri industriali. Nulla però era stato preparato per riceverli, e le condizioni d'alloggio della mano d'opera furono miserabili e deplorevoli".
(1)


Una nuova morale.


Le trasformazioni economiche, sociali e politiche che interessarono la Gran Bretagna indussero anche a una riflessione filosofica.
L'utilitarismo nacque anche dall'esigenza, che i nuovi tempi imponevano, di rendere l'azione dell'uomo indipendente dai valori religiosi, da ogni considerazione oggettiva del bene e del male.
Il pensiero filosofico di riferimento era l'illuminismo che però in Inghilterra conobbe caratteristiche diverse da quello francese e tedesco, in quanto meno ideologicamente orientato, più pragmatico.
Nel mondo anglosassone, sia nella cultura inglese sia in quella statunitense, questa dottrina rimane al centro di dibattiti per decenni, praticamente fino ai nostri giorni, al contrario di quanto accade nel resto d'Europa dove le tematiche utilitariste non trovano consensi altrettanto forti.
L'utilitarismo diviene una scuola di pensiero nel XVIII e XIX secolo con Smith, Bentham, Mill, Ricardo e Malthus: nel concetto di utile rientra l'idea di ciò che può provocare vantaggi, beni e felicità; ma l'utile è tale nel momento in cui procura vantaggi non solo nel singolo individuo, ma anche per tutta la società.
Per capire l'utilitarismo può servire operare un passo indietro e trovare le radici dell'utilitarismo nella filosofia greca e precisamente nell'epicureismo.
Scrive Trombino:

"L'epicureismo si basa su una interpretazione materialista della natura che prende le distanze dall'impostazione antiplatonica della metafisica.
Epicuro nega che possano esistere realtà diverse da quelle riconducibili alla materia piena (atomi) e al vuoto in cui la materia incessantemente si muove (spazio). [...] E' ... da escludere che possano esistere in una qualsiasi forma entità puramente concettuali, come le idee platoniche, o valori indipendenti dal tempo e dal fluire della materia.
Su questi principi Epicuro riconduce lo studio dell'etica al piacere e al dolore e abbandona quindi ogni possibile etica dei valori, cioè l'idea che il comportamento umano debba conformarsi a principi validi in sé e intrinsecamente buoni, principi che l'uomo sia impegnato moralmente a rispettare. Semplicemente nega che simili principi esistano e nega conseguentemente che l'uomo sia soggetto a doveri morali. L'uomo è davvero libero, nel senso che non si danno valori oggettivi a cui deve uniformarsi.
Nell'universo non c'è alcuna ragione morale, non ci sono un bene e un male oggettivi.
Ci sono soltanto esseri che soffrono ed esseri che godono, e la struttura della sensibilità spinge ciascun vivente a godere e a fuggire la sofferenza.
L'epicureismo è stata una delle dottrine etiche più importanti nell'antichità prima dell'avvento del cristianesimo ed ha svolto insieme ad altre correnti filosofiche dell'ellenismo la funzione di guida dell'azione morale. Il Cristianesimo però condanna l'utilitarismo perché vede in questa dottrina il rifiuto di ogni valore e quindi di ogni morale. Con il Cristianesimo prevale infatti l'idea che si possa costruire una morale solo sul fondamento di valori oggettivi, cioè di un bene e di un male assoluti.
Per questo motivo le dottrine utilitariste vengono assimilate alle dottrine atee".
(2)

La storia del pensiero economico può essere fonte di nuove idee e può aiutarci a valutare criticamente le teorie dominanti; progresso della scienza significa proposizione di nuovi modelli, più complessi, capaci di dominare un maggior numero di variabili corrispondenti a nuove strutture e a nuovi comportamenti, non necessariamente più o meno veri dei precedenti.

"Nell'antichità greca il pensiero economico non aveva una sua autonomia: esso era costituito da osservazioni e precetti reperibili nelle opere dei grandi filosofi - in Platone e Aristotele per esempio - ma anche in opere letterarie come le storie di Tucidide e le commedie di Aristofane. Filosofi, storici, letterati greci discutevano nelle loro opere soprattutto della vita "buona", dello stato "giusto" dell'uomo "felice" e poiché erano convinti che il denaro non dava né saggezza né felicità, essi si preoccupavano di suggerire non il modo per aumentare la ricchezza, ma il modo per subordinare l'attività economica alle finalità morali, per frenare l'istinto del guadagno.
Aristotele ad esempio espose con grande chiarezza la distinzione - che diverrà poi fondamentale nella scienza economica - fra valore di scambio e valore d'uso, ma lo scopo della distinzione era chiaramente quello di dare un giudizio etico di preferenza rispetto allo scambio. [...] Paradossalmente si può dire che i pensatori greci arrivarono alla scoperta di numerose leggi economiche proprio perché non credevano che quelle leggi fossero benefiche per l'ordinata vita sociale. Essi erano "volontaristi" cioè erano convinti che l'ordine economico razionale non fosse il frutto dell'azione istintiva, bensì della ragione umana, capace di opporsi agli istinti, in particolare all'istinto del guadagno. In questo quadro concettuale il pensiero economico non poteva emergere come etica applicata, cioè come criterio per distinguere e valutare, dal punto di vista morale, il comportamento degli uomini in fatto di appropriazione dei beni, rapporti commerciali, di lavoro, ecc.
Anche il pensiero economico medioevale segue un'impostazione analoga. Esso non rappresenta un campo autonomo di ricerca, ma una riflessione teologica sull'attività economica e sulle sue conseguenze morali. [...] E' dal messaggio evangelico che gli scrittori medioevali derivano l'affermazione che l'attività economica è attività morale, capace di avvicinare o allontanare l'uomo dal suo destino eterno e quindi suscettibile di valutazione. [...] Ovviamente la pratica medioevale differiva spesso dagli insegnamenti dei moralisti.
I mercanti delle corporazioni non sempre si trattavano come fratelli, i lavoratori non sempre ricevevano un salario sufficiente ai bisogni di sussistenza delle loro famiglie; la Chiesa stessa non sempre corroborava con l'esempio i precetti dettati - in campo economico - dai suoi teologi." (3)

Il rinnovamento metodologico

Verso la fine del XVII secolo gli studi economici - che dall'antichità classica fino al mercantilismo erano stati un insieme di osservazioni della realtà e di precetti miranti al raggiungimento di finalità extraeconomiche - assunsero carattere scientifico.

"Il salto qualitativo apparve in tutta la sua evidenza nel 1776 con la pubblicazione dell'opera di Adam Smith: "Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni"; ma il processo dal quale emerse la scienza economica fu un processo lento, quasi completamente inavvertito dai contemporanei, tuttavia continuo e irreversibile, che si svolse dalla metà del XVII alla metà del XVIII secolo e fu caratterizzato non tanto dal rinnovamento del contenuto dell'indagine economica quanto dal rinnovamento del metodo.
Furono generalmente cultori di altre discipline - medici, astronomi, matematici, fisici, filosofi - che, venuti per circostanze diverse a contatto coi problemi di politica economica del loro tempo, si dedicarono agli studi economici con l'abito mentale che il rinnovamento già in atto nelle scienze naturali e nella filosofia, aveva loro conferito.
Il rinnovamento del pensiero economico poggia quindi su un rinnovamento del pensiero scientifico e del pensiero filosofico che era avvenuto nei primi due secoli dell'epoca moderna ad opera di Niccolò Copernico, di Galileo Galilei e di Isac Newton per le scienze fisiche, di Francesco Bacone e di René Descartes per la filosofia.[...]
I ragionamenti dei nuovi economisti non sempre erano più corretti o sistematici di quelli dei loro predecessori, ma l'abitudine alla speculazione astratta, che deriva dalla loro formazione culturale, li portava abitualmente ad affrontare vecchi problemi con nuovi schemi mentali. Mentre i mercantilisti, richiamandosi ai fatti o all'autorità degli scritti del passato si preoccupavano di persuadere i loro lettori che un certo comportamento dei soggetti economici, ed in particolare dello Stato, avrebbe prodotto effetti vantaggiosi, i "nuovi economisti" si preoccupavano di scoprire "perché" tali effetti si producono, di individuare, nell'ambito delle premesse generali, le relazioni necessarie che legano le cause agli effetti.
Il loro intento è di scoprire quelle che essi considerano le "mirabili leggi naturali" che "devono regolare anche l'attività economica", come regolano la circolazione del sangue, la caduta dei gravi, la traiettoria degli astri, la crescita delle piante. La scienza economica nasce quindi fra il Seicento e il Settecento non a caso, ma perché in quel momento storico esistevano condizioni particolari, nella conoscenza scientifica e nella speculazione filosofica, che si prestavano ad essere utilizzate anche in campo economico. [...]
Certamente non va dimenticato che per più di un secolo le "leggi economiche" sono state considerate "scientifiche" in quanto "naturali, cioè spontanee e benefiche, e che in base a questa considerazione la scienza economica è stata - indebitamente - posta al servizio del sistema produttivo esistente; ma per fortuna oggi nessun economista è disposto a considerare "naturale" e quindi necessario e immutabile qualsiasi sistema storico di produzione.
La ricerca scientifica può nascere e svilupparsi sotto il peso di condizionamenti sociali, ideologici, economici, polititici; tali condizionamenti vanno tenuti presenti, ma non devono farci dimenticare il valore conoscitivo dei risultati raggiunti." (4)

Nell'evoluzione del pensiero economico Thomas Malthus rappresenta una posizione "eretica" che si scosta notevolmente da quella dei suoi contemporanei e che fornirà molti spunti ripresi dalle teorie moderne rappresentando il ponte che collega la scienza economica classica ad alcune significative correnti di pensiero contemporaneo.

Thomas Malthus

T.R.Malthus, figlio di Daniel, un intellettuale seguace e amico di David Hume e Jean Jacques Rousseau, studiò presso il "Jesus College" di Cambridge dove, subito dopo la laurea divenne "Fellow" (assistente). Lasciò l'insegnamento per prendere gli ordini sacri e nel 1797 fu nominato Vicario in una parrocchia protestante del Surrey.
Nel 1805 assunse la cattedra di Economia politica, creata per lui presso l'East India College di Haileybury, dove rimase sino alla morte. Fu amico di David Ricardo con il quale intrattenne per anni una fitta corrispondenza, molto interessante per conoscere il vivace dibattito del tempo sui problemi del valore e della distribuzione.
Nell'ambito del dibattito sulla riforma della legislazione in Inghilterra, Malthus elaborò una teoria della popolazione in contrapposizione e per confutare le idee di Godwin, che evidentemente andavano acquistando un'influenza sempre maggiore, e per protestare ad un tempo contro la nuova legislazione sui poveri.
Malthus pubblicò nel 1978, ma sotto forma anonima, la prima edizione del suo "Saggio sul principio di popolazione". Una seconda edizione notevolmente modificata comparve nel 1803, e questa volta con il nome dell'autore.


Malthus e la dimostrazione dell'utilità della miseria.


"Sin dal 1562, vigeva in Inghilterra un sistema di assistenza ai poveri che si basava su soccorsi distribuiti dalle parrocchie a quanti erano incapaci di lavorare o erano disoccupati. Un sistema siffatto veniva finanziato con un tipo speciale di imposta, la cosiddetta "tassa dei poveri". Nel XVII secolo, poi, le parrocchie vennero autorizzate a creare delle case di lavoro, o workhouse, nelle quali i poveri erano invitati o costretti ad entrare.
Ambedue i sistemi costavano caro, e tuttavia erano ben lungi dal risolvere il problema.
Le workhouses corrispondevano, in sostanza, a degli infami bagni penali, e i soccorsi a domicilio, legando strettamente gli indigenti ad una determinata parrocchia, privavano praticamente i poveri delle loro più elementari libertà.
Le teorie di Godwin, però, indussero a rivendicare una generalizzazione dell'assistenza ai poveri. Fu proprio sotto la sua influenza, infatti, che nel 1795 venne adottata in Francia una Dichiarazione dei diritti, che contemplava, fra gli altri, il seguente articolo: "Ogni cittadino che è incapace di provvedere ai propri bisogni ha diritto all'assistenza dei suoi simili".
La formulazione del diritto all'assistenza era in netto contrasto con le più esplicite e formali tesi di Smith. Per il grande economista la legge dei poveri era semplicemente disastrosa in quanto impediva la libera circolazione della mano d'opera e determinava delle differenze salariali che, generalmente, finivano per danneggiare gli interessi operai.
Un simile argomento, tuttavia, poteva anche non riuscire sino in fondo convincente. Malthus, appunto, fu l'economista che si impegnò, ad un tempo, a confutare il sistema di Godwin e a difendere e ribadire quello di Smith, dimostrando come la tendenza alla sovrappopolazione, intrinseca alla specie umana, determini l'ineguaglianza e impedisca di ammettere e di riconoscere il diritto all'assistenza. (5)

Le tesi fondamentali del "Saggio sul principio di popolazione"

"Con grande consapevolezza, Malthus si propone un obiettivo ben preciso: quello di giustificare l'ordine liberale fondato sulla proprietà e quindi, con esso, l'ineguaglianza sociale.
Smith aveva dimostrato che la libertà era il mezzo migliore per accrescere la ricchezza di una nazione e aveva ammesso, del resto in modo piuttosto implicito, che di un simile arricchimento finivano per trarne giovamento quasi tutti i cittadini.
Malthus sottolinea invece che la ricchezza può aumentare senza che per questo migliori la situazione di ogni singolo individuo. Anzi, un miglioramento siffatto non può assolutamente verificarsi se il numero dei membri della società cresce altrettanto e più rapidamente della quantità dei beni disponibili per la soddisfazione dei loro bisogni.
Ora, proprio in base a questa considerazione, egli sostiene poi che il regime liberale e l'ineguaglianza sociale che ne deriva consentono di migliorare le sorti di una parte almeno dei cittadini poiché determinano una limitazione alla spinta demografica.
Al contrario, un regime di comunanza dei beni e di uguaglianza dei beni ridurrebbe fatalmente, secondo Malthus, tutti gli uomini alla miseria.
La dimostrazione di questa tesi è assai semplice e consiste nel porre a confronto da un lato quella che Malthus considera come la "legge naturale" della crescita della popolazione e, dall'altro, le condizioni del massimo sviluppo possibile delle produzioni alimentari:

"Possiamo ritenere certo che la popolazione, se non viene ostacolata in alcun modo nel suo sviluppo, si raddoppia ogni 25 anni e cresce , di periodo in periodo, secondo una progressione geometrica."

Egli intende dire, insomma, che, tenuto conto della fecondità delle coppie e del grado normale di mortalità, gli uomini si raddoppiano ogni 25 anni, quando possono sposarsi non appena loro piaccia e quando siano capaci, in ipotesi, di nutrire i loro figli.
Si può senz'altro ipotizzare invece che la produzione dei mezzi di sussistenza non possa seguire e non segua la medesima legge. [...]
Malthus, dunque, formula qui quella che più tardi chiamerà la "Legge dei rendimenti decrescenti" dei terreni. Ma a questo stadio della sua ricerca la definisce ancora nei seguenti termini:
"Siamo in grado di affermare [...] che i mezzi di sussistenza, anche nelle circostanze più favorevoli alla loro produzione, non possono mai aumentare più rapidamente che secondo una progressione aritmetica".
[...]
In effetti l'economista inglese è portato a concludere, sulla base di quel contrasto, che una popolazione il cui comportamento matrimoniale e sessuale non venga in alcun modo controllato e frenato è destinato a rimanere sempre miserabile. Non vi può essere mai, invero, il nutrimento sufficiente per tutti coloro che nascono, di maniera che , mentre la società è condannata nel suo insieme alla miseria, l'estrema povertà s'incarica poi d'uccidere quanti non possono essere nutriti.
Si apre così il problema di sapere se non vi siano altri mezzi, meno insopportabili della miseria, per limitare lo sviluppo della popolazione.
Si potrebbe innanzitutto pensare a delle misure legislative, che vengano a stabilire, procrastinandola il più possibile, l'età idonea per il matrimonio. Malthus, però, afferma senz'altro che una simile legislazione non può neppure essere ipotizzata, poiché sarebbe inapplicabile:
"Chi si incaricherebbe di farla eseguire e come si potrebbe provarne la violazione? Si dovrebbe forse imprimere un marchio d'infamia o si dovrebbe mostrare a dito chiunque avesse contratto matrimonio precoce? Oppure lo si dovrebbe condannare alla fustigazione o a parecchi anni di galera? E i suoi figli li si dovrebbe per caso considerare dei trovatelli? In realtà tutti i castighi che potrebbero essere escogitati per un delitto di questa specie, non appaiono subito intollerabili e contrari alla natura?"

[...] Nelle successive edizioni della sua opera, e sin dal quella del 1803, Malthus si affannò a proclamare e a difendere i suoi intenti filantropici, sostenendo di non essere affatto il nemico dei poveri e nemmeno l'avversario di un ragionevole incremento della popolazione. (6)

"Il naturalismo sociale nell'opera di Malthus"

La teoria sviluppata nel "Saggio sul principio di popolazione" può essere considerata come un esempio, particolarmente probante, di quegli errori cui può condurre una concezione naturalistica della società. Di fronte al Saggio di Malthus, un problema si apre immediatamente. Parlare - come appunto pretende l'economista inglese - di una legge naturale che regola lo sviluppo della popolazione, significa puramente e semplicemente assimilare l'uomo ad un organismo vegetale o animale, di cui si possono studiare in effetti le leggi di riproduzione e di moltiplicazione.
Ma una tale assimilazione è davvero possibile? Esiste effettivamente una legge naturale del processo demografico del genere umano?
Se si esamina il Saggio di Malthus, ci si accorge subito che l'economista non sa fornire alcun argomento valido per comprovare l'esistenza di una simile legge. Certo, egli ci fa osservare, trattando delle vicende di diversi popoli, che la pressione demografica determina, in parecchi casi, una situazione di miseria. Ma questo non implica affatto che, presso tutte queste nazioni, la popolazione tenda a svilupparsi seguendo una medesima legge. E' indubbio invece che l'organizzazione sociale, i costumi, la religione influenzano, in misura considerevole, sia i matrimoni sia la fecondità delle coppie.
Anzi Malthus si trova persino di fronte a casi in cui deve constatare una tendenza al regresso demografico e allo spopolamento, come appunto quello dei romani dei primi secoli della nostra era. E, se egli attribuisce allora una tendenza siffatta a delle "abitudini viziose" è anche troppo chiaro che questo è un modo troppo sbrigativo per cercar di ridurre simili casi a delle eccezioni che confermerebbero semplicemente la regola.
In realtà, per poter dimostrare l'esistenza di una legge della popolazione, bisognerebbe essere in grado di osservare l'uomo nel suo "stato naturale", e cioè in quello stadio che precederebbe ogni forma di sistema sociale, e che venne appunto immaginato dai filosofi del XVIII secolo. Ma tale impresa è assolutamente impossibile.
Di fatto, anche presso i popoli primitivi, presso le tribù, ad esempio, degli indigeni americani, Malthus si trova di fronte a dei costumi sociali, di cui del resto ammette l'influenza (e anche grande influenza) sull'incremento della popolazione.
Così egli riesce ad osservare e a prendere in considerazione il fatto che l'abitudine delle tribù indiane di riservare alle donne i lavori più duri ne limita gravemente la fecondità; disgraziatamente, però, non arriva per questo a comprendere che è impossibile parlare di un'unica legge della popolazione, proprio perché l'uomo vive sempre nel quadro di una determinata organizzazione sociale.
In effetti, tutte le società, sin da quelle più antiche , hanno adoperato diversi mezzi per limitare la crescita della popolazione e, in primo luogo, quello che consiste nel rendere più difficili i matrimoni imponendo a coloro che vogliono unirsi coniugalmente determinate condizioni giuridiche e finanziarie.
Senza dubbio, quindi, è accaduto assai spesso che i figli delle famiglie ricche o nobili hanno potuto sposarsi più facilmente; e tuttavia sostenere che l'ineguaglianza è stata sempre la condizione essenziale della limitazione dello sviluppo demografico, sarebbe davvero una semplificazione indebita ed eccessiva di un insieme di fatti sociali che sono invece estremamente complessi.
In ogni modo, quando passa ad esaminare i fatti che ha sotto gli occhi, Malthus non può non constatare che la popolazione tende a crescere troppo rapidamente. Anche questa volta, però, non si accorge come un simile sviluppo dipenda, in larga misura, dal fatto che il capitalismo distrugge le vecchie tradizioni sociali, da cui prima era regolata la riproduzione della specie umana.
Il capitalismo sradica l'individuo, lo priva del suo antico ambiente sociale, sia esso la famiglia patriarcale o l'organizzazione del villaggio o la corporazione di mestiere, e non vi sostituisce alcun'altra forma di vita associata. Il lavoratore, la cui forza lavoro è una semplice merce, pagata miserabilmente, tende, è vero, ad assumere, fuori dalla fabbrica o dall'azienda agricola, un modo di vita meramente animale; ma è il capitalismo che lo condanna ad una simile forma di esistenza subumana. E se Malthus non riesce a rendersi conto di questo fatto essenziale, è soltanto perché, in conformità con la filosofia del suo tempo, ha adottato una concezione naturalistica della realtà sociale.
La sua "legge della popolazione" è appunto manifestazione peculiare e caratteristica di un simile naturalismo.
Quanto poi alla sua condanna di ogni forma di controllo delle nascite, è chiaro che vi è manifesta l'adesione di Malthus all'etica puritana, che è l'espressione più rigoristica della morale del cristianesimo.
In effetti il puritanesimo considera il piacere sessuale come un male in sé e professa quindi un'etica assai diversa, e anzi opposta ai sistemi morali dell'antichità che si limitavano ad affermare la superiorità dei piaceri intellettuali su quelli fisici e a sostenere la necessità di obbedire a criteri di moderazione sul piano della soddisfazione dei bisogni della vita corporea. Per il puritanesimo, invece, il piacere del sesso è un male anche nel matrimonio, e può essere ammesso solo quando viene direttamente strumentalizzato al fine della procreazione.[...]
In questa parte della sua opera, Malthus parla come cristiano e come prete.
Ma quest'ecclesiastico, questo pastore, pone una cura tutta particolare nel non apparire nemico della ragione, e un tale sforzo per conciliare ragione e fede dà sfumature e toni del tutto particolari alle tesi e alle dichiarazioni di principio di questo singolare economista.[...]
Che cosa è dunque il mondo? E' un processo voluto da Dio per la creazione e la formazione dell'intelligenza: "Un processo per risvegliare la materia inerte e caotica e trasformarla in una realtà spirituale, per sublimare insomma il fango della terra e trarne l'anima."
Ma perché l'uomo possa esercitare, e perciò sviluppare la propria intelligenza, occorre che sia spinto al lavoro dalla necessità di soddisfuioare ai suoi bisogni:

"Il tempo libero ha senza dubbio un gran valore per l'uomo; ma se consideriamo l'essere umano, per quello che è, risulterà senza dubbio chiaro che, nella maggioranza dei casi, il tempo libero potrà produrre piuttosto del male che non del bene."

Né Malthus si arresta a questa prima considerazione e aggiunge ancora:

"Sulla base di quanto ci ha insegnato l'esperienza a proposito della natura umana, abbiamo buone ragioni per ritenere che, ove venissero a mancare quegli incentivi all'azione che provengono per la gran massa degli uomini dai bisogni del corpo, gli uomini stessi cadrebbero a livello dei bruti, per la mancanza di ogni spinta al lavoro, piuttosto che non elevarsi alla dignità dei filosofi, grazie alla fruizione del tempo libero."

E' facile riconoscere, in queste tesi, la concezione puritana della vita, così opposta a quella degli antichi. Ma nell'ultimo capitolo del suo "Saggio", Malthus si spinge ancora più in là, poiché afferma che la stessa "infelicità" (e non più soltanto il bisogno e il lavoro) costituisce una molla indispensabile per lo sviluppo dell'essere umano:

"I dolori e le sventure costituiscono un'altra categoria di incentivi, che sembrano essere necessari... per ingentilire e rendere più umano il cuore, per risvegliare sentimenti di simpatia sociale, per ingenerare tutte le cristiane virtù e per fornire l'occasione, infine, di esercitare ampiamente la generosità verso il prossimo."

Questo però è solo il primo argomento. Il secondo, ancor più singolare, è che il vizio deve esistere per eccitare le anime alla virtù, grazie appunto a quel "senso di vuoto" e a quella "riprovazione del male" che le anime stesse non possono non provare:

"Sembra oltremodo probabile che il vizio sia assolutamente necessario alla produzione dell'eccellenza morale."

Malthus, forse, esprime proprio in questo passo il fondo del suo pensiero. Si tratta, in definitiva, della concezione di un prete, la cui teologia è messa a dura prova dalla filosofia illuministica, e che quindi, per poter riaffermare la propria fiducia nell'etica tradizionale, non sa trovare altri mezzi se non quello di accentuarne, sino all'assurdo il carattere pessimistico.
Malthus dichiara singolarmente, tra l'altro, che non vuol pronunziarsi in merito alla questione se lo spirito sia diverso dalla materia:

"Dopo tutto il problema è forse semplicemente una questione di parole. Lo spirito è essenzialmente spirito, anche se si forma dalla materia o da qualche altra cosa consimile."

Già qui, dunque, l'imbarazzo del teologo è manifesto. Ma risulta ancor meglio da un passo in cui l'autore dichiara che gli è impossibile di credere all'inferno. Questo testo, però, è particolarmente importante per la comprensione del pensiero di Malthus, poiché ci permette di vedere come la convinzione della necessità della miseria sociale venga a sostituire, nell'economista inglese, la credenza nell'inferno:

"E' del tutto impossibile ammettere che una delle creature uscite dalle mani di Dio possa essere condannata a una sofferenza eterna.
Se veniamo ad ammettere, anche una sola volta, una simile idea, tutte le nostre concezioni sulla bontà e la giustizia andranno completamente distrutte, e noi non potremo più considerare Dio come un essere misericordioso e benevolo. Nondimeno, la dottrina della vita e dell'immortalità, che ci è stata rivelata dal vangelo, questa dottrina per cui il fine stesso della giustizia sta nella vita eterna, e per cui invece la morte è compenso del peccato, ci dimostra, fuor da ogni dubbio, come assolutamente giusta e degna dell'onnipotente Iddio che ci ha creati. Ora, nulla può sembrarci più conforme alla nostra ragione dell'idea che quegli esseri i quali nascano dal processo creatore del mondo con belle e amabili forme, debbano essere coronati dall'immortalità, mentre coloro che nascano deformi e i cui spiriti non siano adatti ad una condizione più pura e più felice, debbano morire per sempre e essere condannati a confondersi di nuovo con il fango originario.
Una eterna condanna di questo tipo può ben essere avvertita come una sorta di castigo eterno, né può sorprendere che talvolta sia stata raffigurata attraverso delle immagini di sofferenza: sta di fatto, però, che nel Nuovo Testamento, la vita e la morte sono rispettivamente collegate alla salvezza e alla distruzione, assai più spesso che non sia contrapposta la felicità alla miseria. Ma ne consegue anche, allora, che quelle parziali sofferenze, le quali ci vengono inflitte dal supremo Creatore, nell'atto stesso in cui vien preparando innumerevoli esseri a divenir capaci delle gioie più alte, sono semplicemente della polvere al vento, in paragone alla felicità che ne può venir generata.
Non abbiamo perciò ragioni sufficienti per ritenere che vi sia nel mondo più male di quanto non sia necessario a servir da ingrediente nel processo della creazione."

Se interpretiamo bene questo testo alquanto faticoso, ci sembra si possa sostenere che per Malthus l'inferno non esiste e che il cielo resta l'eterna dimora degli esseri destinati alla felicità, mentre gli uomini scarsamente dotati, e che quindi non possono pretendere una vita futura, sono giustamente colpiti, nel corso della loro breve esistenza terrena, dalle sventure e dalla miseria.
Sino al termine della sua vita, Malthus, pronunciò ogni domenica dei sermoni molto edificanti.[...]Che cos'è infatti l'uomo per Malthus? Se è povero è un animale, preda dei suoi istinti immediati e soprattutto di quello sessuale. E se invece è ricco, se è un proprietario? E' allora soltanto un automa, che agisce meccanicamente, in vista sempre del suo chiuso e personale interesse.
Malthus, in realtà, aderisce pienamente alla concezione utilitaristica del comportamento umano. E su "su questi bei fondamenti" un autore può parlare a ogni pagina di Dio e della virtù: ciò non gli impedisce di aderire ad una visione del mondo quanto mai lontana da qualsiasi spiritualismo autentico." (7)

Un'ampia pagina di critica corrosiva alla teoria malthusiana compare all'interno del manuale "Storia del pensiero filosofico e scientifico" a cura di Geymonat:

"Malthus fu un deciso sostenitore degli interessi dei proprietari fondiari, ed invocò a questo scopo la cosiddetta "Legge dei compensi decrescenti", secondo la quale un capitale investito nella terra non porta un uguale aumento di produttività: raddoppiando la somma investita in un fondo, non si ottiene di regola un raddoppiamento della produzione agricola. L'incremento della popolazione ha un ritmo molto rapido sicchè Malthus affermò che la terra sarebbe presto divenuta insufficiente e formulò la famosa legge secondo cui l'indice demografico aumenta in progressione geometrica, quello della produzione agricola in progressione aritmetica.
Malthus predicava quindi il controllo demografico e fece una rozza analisi di mezzi che potevano attuarlo, dividendoli in due categorie: repressivi (che aumentano l'indice di mortalità: epidemie, guerre, carestie, etc.) e preventivi (che diminuiscono l'indice di natalità - vizio ciò appagamento sessuale irregolare: adulterio, sodomia, etc. - e "moralità").
Prevenzione "morale" per Mathus significava predicare ai poveri che se non potevano mantenere i figli era meglio non si sposassero; inculcare loro l'astinenza sessuale e il senso del peccato; abolire le leggi sulla carità pubblica, perché il lenire le miserie dei poveri significa spingere a riprodursi. La sua tesi è riassunta da questo passo: "chiunque nasce in un mondo già oggetto di appropriazione privata e non ritragga i mezzi di sussistenza né dai propri genitori né dal proprio lavoro, non ha alcun diritto di essere mantenuto; in realtà egli è inutile in questo mondo. Alla gran mensa della natura non c'è alcun piatto che lo attende. La natura gli comanda di andarsene e non tarda a mettere in esecuzione il suo ordine." Del proprio stato di miseria, i disoccupati devono insomma accusare non la proprietà privata della terra o dei mezzi di produzione industriale, ma la natura o la lussuria dei propri genitori che non hanno hanno resistito alla "tentazione" di aver rapporti sessuali. L'opera di Malthus è priva di rigore scientifico, come appare anche dal fatto che egli stesso si è ampiamente contraddetto nello scritto "Pinciples of political economy" (Principi di economia politica).
Ancora una volta il suo scopo è di difendere gli interessi dei proprietari terrieri e per far questo si ricollega alla distinzione ricardiana tra consumo produttivo e consumo improduttivo. Ricardo come si è visto, aveva commesso l'errore di credere che una costante accumulazione di capitali non potesse portare in alcun caso ad una crisi di sovrapproduzione. Malthus (e su questo punto aveva ragione) negò questo principio, dichiarando che la produzione si reggeva solo sulla domanda effettiva, cioè su di una richiesta del mercato tale da consentire al capitalista il recupero del capitale investito con l'aggiunta di un profitto. Ma - egli osservò - il capitalista non può sperare di vendere la globalità dei propri prodotti al salariato giacchè questi, per definizione, guadagna solo lo stretto necessario per vivere, e perché la somma totale dei salari è sempre per definizione (essendo il profitto lavoro non pagato) inferiore alla somma totale delle merci offerte sul mercato.
Per sostenere la domanda effettiva e incentivare la produzione occorre quindi favorire la rendita, cioè il consumo improduttivo, scambiato non contro capitale ma contro reddito.
Oltre ai proprietari fondiari, occorre un gran numero di coloro che già Smith aveva definito parassiti: ecclesiastici, avvocati, soldati, domestici giudici, etc.; i loro lussi sono assolutamente necessari alla società.
Conclusione: il pensiero di Malthus è quello che il proletariato che lavora va sfruttato e deve praticare il celibato mentre i consumatori improduttivi vanno difesi e incoraggiati. Estremamente preciso risulta il seguente passo di Marx: "Ciò che caratterizza Malthus è la fondamentale volgarità dei sentimenti, volgarità che può permettersi soltanto un prete che riconosce nella miseria umana la punizione del peccato originale che in generale ha bisogno di "questa valle di lacrime", ma che nello stesso tempo per riguardo alle prebende di cui gode e con l'aiuto del dogma della predestinazione, trova assolutamente vantaggioso "addolcire" alle classi dominanti il soggiorno in questa valle di lacrime." (8)

"Per Malthus, uomo di rigida morale puritana, l'uomo ragionevole e moralmente responsabile non ha di fronte a sé che una scelta per evitare la "crudele azione" dei freni repressivi: "la virtuosa astensione" - secondo le sue parole - o almeno il ritardo nel contrarre matrimonio.
Nel "Saggio" Malthus forniva una teoria fragile, viziata dall'eccesso di "semplificazione e di generalizzazione" che - qualche decennio dopo, nella prefazione del suo trattato di economia - egli stesso rimprovererà agli economisti suoi contemporanei.
In realtà l'esperienza storica ha mostrato che Malthus da un lato sottovalutava la possibilità di crescita dei mezzi di sussistenza che il progresso tecnico avrebbe consentito, dall'altro sopravvalutava il fattore biologico in un campo, quello della riproduzione umana, in gran parte soggetto a fattori culturali.
Tuttavia la fragile teoria di Malthus ebbe un gran successo: in un'epoca imbevuta di naturalismo, essa forniva una spiegazione "naturale" della povertà; offriva - indipendentemente dalla volontà del suo autore - un comodo alibi da opporre alle tendenze rivoluzionarie o riformiste insite nelle dottrine di derivazione illuminista, che individuavano nelle strutture istituzionali i mali della società."(9)

La politica di Malthus: "genocidio umanitario"


"Nel suo "Saggio sul principio della popolazione" del 1798 [...] T. Malthus descrisse la "necessità" del genocidio sistematico. Si noti come la tendenza genocida resta la caratteristica invariante dell'empirismo britannico di allora e di oggi. Tutti i bambini nati in eccesso rispetto a ciò che sarebbe necessario al mantenimento della popolazione a questo livello (definito in rapporto al totale delle risorse arbitrariamente ritenute fisse? ndr) debbono necessariamente perire, a meno che per loro non sia fatto posto dalla morte di persone adulte.
Per questo occorre facilitare e non prodigarsi inutilmente e stupidamente a ostacolare quelle operazioni della natura che producono quella mortalità; e se temiamo le troppo spesso ricorrenti visite delle forme orrende della fame, noi dobbiamo assiduamente incoraggiare le altre forme di distruzione che noi costringiamo la natura ad usare. Invece di raccomandare l'igiene ai poveri, dobbiamo incoraggiarli ad abitudini opposte.
Nelle nostre città dobbiamo costruire le strade più strette, sovraffollare le case con più persone e sollecitare così il ritorno della peste. In campagna dobbiamo costruire nei pressi delle acque ristagnanti ed incoraggiare particolarmente gli insediamenti in zone palustri ed insalubri.
Ma soprattutto dobbiamo deprecare i rimedi specifici contro l'esplodere delle malattie e quelle persone bene intenzionate, ma che errano grandemente, che credono di rendere un servizio all'umanità ideando dei sistemi per eradicare completamente i particolari disordini." (10)

Sembra che due siano i grandi pericoli della nostra civiltà: la guerra atomica e la fame. Ma i governanti del mondo non giungeranno mai al limite estremo di distruggere il genere umano con un conflitto atomico. In altri termini si presenta invece il problema della fame perché essa non appare legata ai comportamenti umani ma sembra essere una catastrofe naturale contro la quale non si può far nulla. Oggi la fame uccide un terzo della popolazione mondiale. In un atteggiamento di superficiale e spesso ipocrita compassione nasce la convinzione che le risorse alimentari non siano sufficienti per tutti e che quindi la fame non sia eliminabile. Anzi, la fame finisce con l'apparire una colpa dei popoli stessi che ne sono le vittime perché non sanno frenare il troppo rapido incremento demografico e non sanno liberarsi da irrazionali abitudini che ostacolano il processo di "incivilimento".
Dietro le pessimistiche previsioni per il futuro si nasconde una crudele indifferenza. Nel mondo occidentale che ha in media il più alto tenore di vita, la produzione viene orientata in modo da ottenere la maggior quantità di beni i quali però non sono destinati a soddisfare i bisogni degli uomini ma solo a far affluire ricchezza nelle tasche delle classi dominanti, secondo gli interessi dei sistemi capitalistici.
Evidentemente la nostra società, pur progredita per tanti aspetti, non si è allontanata di molto dall'epoca in cui il pensiero di Malthus concepiva una simile teoria; le realtà appena descritte sono presenti ancora oggi nei quartieri ghetto che raccolgono poveri immigrati, nelle case fatiscenti, suddivise e affittate a volte nella forma dei posti letto, dove il sovraffollamento, le inadeguate strutture igieniche, la miseria, ma anche l'isolamento, la solitudine morale, l'abbandono, determinano condizioni di rischio per la vita stessa.
Il problema dei limiti dello sviluppo riguarda ovviamente l'effettiva capacità del genere umano di eliminare la fame sulla terra e di garantire a tutta la popolazione mondiale condizioni minime di benessere e, in termini apodittici, concerne il dubbio circa la capacità del pianeta terra di tollerare ed assorbire i danni progressivi prodotti dall'inquinamento e dallo sfruttamento intensivo delle risorse naturali.
Gli studiosi sembrano comunque concordare su una previsione: nel prossimo secolo il nostro pianeta sarà in grado di tollerare una popolazione non superiore a 10-11 miliardi di persone, a patto però che si concretizzino alcune precise condizioni (fra cui mutamenti tecnologici in agricoltura in modo da produrre maggiori quantità di cereali e grano, diminuzione drastica dei consumi energetici e della produzione di rifiuti, aumento del riciclaggio dei beni, mutamento dei consumi alimentari e degli stili di vita, rallentamento dello sviluppo demografico.


Popolazione e Benessere economico


Il rapporto fra popolazione e il benessere economico è alquanto complesso, secondo gli studi demografici, il 95% delle nascite avviene in quei paesi in via di sviluppo, che sono considerati i più poveri, quindi meno capaci di far fronte alla crescita della popolazione.
Numerose ricerche hanno dimostrato che le donne più colte ed istruite tendono a sposarsi più tardi ed avere così un numero inferiore di figli, sapendo così garantire alla prole un maggior benessere; inoltre le donne istruite hanno maggior conoscenza sui metodi contraccettivi, senza dover ricorrere all'aborto.
Molti studi evidenziano come la popolazione e lo sviluppo siano direttamente collegati: infatti il rallentamento della crescita demografica favorisce lo sviluppo economico e offre ai governi la possibilità di realizzare con maggiore efficacia le politiche sociali per i meno abbienti; a queste conclusioni è giunta la Conferenza dell'Organizzazione delle Nazioni Unite su popolazione e sviluppo avvenuta alla Conferenza del Cairo nel settembre del 1994, anche le relazioni tra popolazione, risorse e ambiente sono molto complesse, le tecnologie usate dagli esseri umani per produrre beni di consumo e di ricchezza possono avere sull'ambiente un impatto negativo.
La popolazione è soltanto una delle cause che determinano il degrado dell'ambiente, il progressivo uso di clorofluorocarburi (CFC), utilizzate nelle industrie a partire dagli anni Trenta, ha provocato il buco nello strato dell'ozono, un danno che non può essere attribuito all'incremento demografico, la popolazione è responsabile per quanto riguarda le emissioni di ossidi di carbonio che fuoriescono dagli scarichi automobilistici e di tutti i mezzi di trasporto a motore come navi e aereoplani, il cui uso è in costante aumento nei paesi più industrializzati sia in quelli in via di sviluppo, infine gli impianti di riscaldamento delle abitazioni sono la causa principale del surriscaldamento dell'atmosfera e dei graduali cambiamenti climatici.
Nella terza Conferenza, organizzata al Cairo nel 1994, si è concordato che il nucleo di ogni politica demografica debba diventare il benessere degli individui, la salute e la libertà di scelta nella pianificazione della propria famiglia, la Conferenza del Cairo ha indicato inoltre gli obiettivi per i prossimi vent'anni: investire sulla salute, ridurre le discriminazioni sessuali nei confronti delle donne, fornire almeno l'istruzione primaria a tutti i bambini del mondo, ridurre la mortalità infantile in quei paesi sottosviluppati, ritardare l'epoca del matrimonio, propagandare i metodi contraccettivi come alternativa all'aborto, rendere partecipi i padri circa i propri doveri nei confronti della riproduzione, dell'aiuto della donna e dell'educazione dei propri figli.


Il principio della selezione naturale


Nel 1838 Darwin venne a conoscenza della teoria di Malthus. Che cosa accadrebbe, si chiese Darwin, se si applicasse il principio di Malthus per comprendere quello che accade alle piante ed agli animali? Si comprenderebbe che in natura c'è una continua lotta per l'esistenza e che in essa sopravvivono gli individui che hanno caratteristiche più favorevoli rispetto ai problemi che pone l'ambiente. Avviene cioè una selezione naturale simile a quella che gli uomini provocano artificialmente negli animali e nelle piante. In ogni specie vi sono differenze tra gli individui, e ogni specie produce più individui di quanti ne potranno sopravvivere. L'ambiente seleziona gli individui che hanno caratteristiche più utili alla sopravvivenza e questi caratteri vengono trasmessi ai discendenti; gli individui che hanno caratteri sfavorevoli vengono eliminati e gli individui che nascono hanno nuovi caratteri.

"Esiste, tra i vari individui, una continua e tenace lotta per l'esistenza; il loro numero infatti tende a crescere in progressione geometrica, cioè assai più di quanto non crescano le risorse dell'ambiente: Nascendo un numero di individui superiore a quello che può vivere - scrive Darwin - deve certamente esistere una seria lotta per l'esistenza, sia fra gli individui della medesima specie, sia fra quelli di specie diverse, oppure contro le condizioni fisiche della vita. Questa è la dottrina di Malthus, applicata con maggior forza a tutto il regno organico; perché in questo caso non è possibile un aumento artificiale di nutrimento, né alcun prudente ritegno dal matrimonio."
In questa situazione sorge spontanea la domanda: quali organismi sopravviveranno? Sempre secondo Darwin, la risposta più spontanea e generale non può essere che la seguente: : sopravviveranno i meglio adatti alle condizioni di vita in cui si trovano. Con un'ardita personificazione della natura, questa sopravvivenza del più adatto fu chiamata "selezione naturale" quasi che sia la stessa natura a prescegliere per la riproduzione gli individui che di fronte agli altri hanno qualche vantaggio. Per essere più precisi: ogni qualità utile alla lotta ha "valore di sopravvivenza" cioè pone il suo possessore in posizione di vantaggio rispetto ai concorrenti (in quanto la possiede, egli potrà vivere più a lungo e allevarsi un maggior numero di discendenti). I figli di detto individuo riusciranno, a loro volta ad ereditare la qualità utile alla lotta posseduta dal genitore, ed anzi l'accentueranno sempre più onde verranno a trovarsi in condizioni via via più privilegiate rispetto agli individui della loro medesima razza che non la posseggono. Accadrà pertanto che questi ultimi risulteranno poco a poco eliminati, e le qualità aventi "valore di sopravvivenza" finiranno - col trascorrere dei secoli - per diffondersi naturalmente tra la razza in esame: essa si trasformerà lentamente ma inevitabilmente, e potrà dar luogo ad una razza nuova e diversa." (11)


La teoria di Darwin fu accolta con estremo interesse, ma non senza opposizioni e incomprensioni, non solo perché costringeva a separare il linguaggio della religione da quello della scienza, ma perché spiegava anche l'origine dell'uomo in modo nuovo.
Darwin aveva applicato la teoria evoluzionista unicamente all'ambito delle scienze naturali, senza alcun riferimento da altri campi, come venne invece fatto in seguito. Secondo Hannah Arendt, il nazismo, per esempio, utilizzò l'evoluzionismo a scopo ideologico configurando la razza ariana come il prodotto più perfezionato di una lotta per l'esistenza non più di carattere biologico, ma politico e sociale; per questo la razza ariana evrebbe dovuto avere il predominio sulle altre razze, legittimato dalla pretesa "naturalità" del processo di selezione.
Hannah Arendt, a tal proposito scrive:

"Alla base della fede nazista nelle leggi razziali come espressione della legge della natura nell'uomo vi è l'idea darwiniana dell'uomo come prodotto di un'evoluzione naturale che non si arresta necessariamente alla presente specie di esseri umani; alla base della fede nella lotta di classe come espressione della legge della storia vi è la concezione marxista della società come prodotto di un gigantesco movimento storico, che corre con rapidità sempre maggiore verso la sua fine, verso il momento in cui si annullerà come storia.
E' stato spesso posto in rilievo la differenza fra l'approccio storico di Marx e naturalistico di Darwin, di solito e giustamente in favore del primo. Ciò ha fatto dimenticare che Marx provava un grande sincero interesse per le teorie di Darwin, e che Engels riteneva di fare il massimo complimento all'amico defunto chiamandolo il "Darwin della storia". (12)

A voler considerare la concezione di fondo dei due uomini, risulta che in definitiva il movimento storico e quello naturale sono la stessa cosa, l'introduzione darwiniana del concetto di evoluzione nella natura, la sua insistenza sul fatto che, per lo meno nel campo della biologia, il movimento naturale non è circolare, bensì rettilineo e avanza all'infinito in una direzione, significano in effetti che la concezione moderna della storia si è impadronita delle scienze della natura, che la vita naturale viene considerata storica.
La legge naturale della sopravvivenza del più forte è appunto una legge storica, e come tale potè essere usata dal razzismo.


L'evoluzione delle teorie economiche.


"John Stuart Mill e Karl Marx si trovarono ad osservare la stessa realtà economica, una realtà nella quale la classe industriale e commerciale aveva già conquistato la supremazia nei confronti dell'aristocrazia terriera, e il proletariato - sebbene privo del diritto di voto - mostrava nuovi segni di risveglio politico e di associazionismo sindacale.
J.S. Mill (1806-1873) filosofo, economista, uomo politico, fu una figura tipica dell'establishment intellettuale inglese del suo tempo. Sulla sua formazione influirono decisamente Bentham e Ricardo, amici intimi del padre , l'economista James che aveva fondato la "Utilitarian Society" e la "Westminster Rewiew" i centri del radicalismo filosofico e della cultura utilitarista. Ma John Stuart fu anche affascinato dai nuovi movimenti eterodossi, che esprimevano - ancora confusamente - i fermenti sociali che la sua epoca inquieta portava alla ribalta: l'utopismo di Owen e Saint-Simon, il socialismo ricardiano di Thompson, il romanticismo di Carlyle, il femminismo delle suffragette.
L'edificio scientifico di Mill - meno rigoroso di quello di Ricardo e meno ricco di spunti analitici di quello di Malthus - è storicamente rilevante perché è un'opera di transizione. Dal punto di vista politico-economico Mill rappresenta il compromesso fra liberalismo da una parte e il riconoscimento delle esigenze di giustizia dall'altra. Quella di Mill è una posizione che talvolta può apparire incoerente, ma che ebbe grande influsso sul pensiero e sull'azione politica della seconda metà dell'Ottocento. Il pensiero economico inglese passa attraverso Mill per arrivare a Marshall, a Pigou e a Keynes. Va ricordato che il trattato di Mill fu il testo usato ad Oxford fino al 1919.
Il pensiero politico inglese passa attraverso Mill e i cartisti, per arrivare ai fabiani e ai laburisti." (13)


Nell'etica di G.S.Mill il tentativo di integrare i principi utilitaristici con l'individualismo romantico.


[...] "Onestà e incertezza può venire riscontrata nell'etica di Mill. Da un lato, infatti, egli si sforza di mantenere fede al principio utilitaristico di Bentham, dall'altro sente la necessità di integrarlo con alcuni principi tratti dall'individualismo romantico.[...]
Mentre Bentham pareva non rendersi conto - nel suo bilancio aritmetico dei piaceri - che per l'individuo umano la felicità degli altri è qualitativamente diversa dalla propria, Mill comprende con perfetta chiarezza questa diversità e dichiara francamente che essa costituisce un problema di cui bisogna riuscire a trovare una soluzione. Egli ritiene di poter spiegare la capacità dell'individuo di sacrificarsi per gli altri come effetto di un sentimento morale, e non si rende conto che proprio l'esistenza di tale sentimento accanto all'istinto egoistico costituisce il punto più difficile della questione.
Invece di affrontarlo in tutta la sua gravità , egli si limita a dirci che non è un sentimento innato, bensì un prodotto della vita sociale che, abituando gli individui ad avere interessi comuni, li "educherebbe" a superare il proprio egoismo.
Comunque sia, Mill ricava dal sentimento morale il dovere del rispetto per l'indipendenza e dignità di tutti gli individui, e ne fa la base non solo della sua concezione etica, ma anche di quella economico-politica che, senza diffonderci su di essa, venne considerata per molti decenni come la più elevata espressione del liberalismo democratico e progressista non solo in Inghilterra ma in tutta l'Europa.Va però osservato che si tratta di un liberalismo tutt'altro che insensibile alle ingiustizie della società del suo tempo. Qui di nuovo Mill si distacca profondamente dalla pura e semplice tradizione trasmessagli dai precedenti teorici della concezione liberale; se non aderisce in modo esplicito al movimento socialista, è soltanto per timore che il socialismo non riesca a salvaguardare interamente la libertà. La scelta fra individualismo e socialismo dovrà dipendere "da un'unica considerazione, cioè da quale dei due sistemi si concilii con la massima somma possibile di libertà e di spontaneità umana". (14)

Note:

  1. Henri Denis, Storia del pensiero economico, Il Saggiatore, Vol.2, Milano, Mondadori editore torna al testo
  2. Mario Trombino, La ricerca contemporanea, vol.III, Milano, Poseidonia, pag.490, 492,493 torna al testo
  3. Francesca Duchini, Storia del pensiero economico, Milano, Principato - pagg. 9/10 torna al testo
  4. ibidem pagg.15/16, torna al testo
  5. Henri Denis, Storia del pensiero economico, Il Saggiatore, Milano, Mondadori Editore, Vol.I torna al testo
  6. ibidem torna al testo
  7. ibidem torna al testo
  8. Geymonat, Storia del pensiero filofico e scientifico, Garzanti, 1971.torna al testo
  9. Francesca Duchini, ibidem torna al testo
  10. "Solidarietà", anno VII n.3, Luglio 1999 torna al testo
  11. Geymonat, Storia del pensiero filosofico, Milano, Garzanti, Vol. III torna al testo
  12. Hannah Arendt, "Origini del totalitarismo", Tit. orig. :"The originis of Totalitarianism", Edizione di comunità, 1999,Torino torna al testo
  13. Francesca Duchini, ibidem torna al testo
  14. 14.Geymonat,ibidem torna al testo

Bibliografia