"Le
prime macchine vennero introdotte, innanzitutto, nelle fabbricazione dei filati dei tessuti di cotone. Hargreaves inventò nel 1765 la jenny, una specie di arcolaio perfezionato che, sin da quando venneinstallato, permise la lavorazione di otto fili per volta. Era azionato a mano e potè essere adoperato da lavoratori a domicilio.
Nel 1771 Arkwright organizzò una filanda in cui si utilizzava la Water-Frame, una macchina per filare che era messa in movimento dalla forza dell'acqua corrente.
Nel 1779 Crompton combinò poi insieme i vantaggi delle due prime invenzioni; e nel 1785, infine, Cartwright costruì un telaio meccanico per la tessitura delle stoffe di cotone, che finì per rinnovare completamente l'industria tessile.
Del resto, in quello stesso
anno, cominciò a funzionare la prima filanda che utilizzava l'energia della macchina a vapore già inventata da Watt.
Queste invenzioni, che abbassavano enormemente i costi dei tessuti, determinarono uno sviluppo rapidissimo della produzione. [...]
I progressi dell'industria del cotone ebbero, d'altra parte, un andamento molto irregolare. Per alcuni anni si aprirono molte fabbriche, ma poi la produzione divenne superiore alla domanda, sicché o cessò di crescere o addirittura regredì.
Nel 1788 e nel 1789 molte aziende licenziarono una parte del loro personale, e nel 1793 fallirono una dozzina di filande, mentre l'importazione del cotone grezzo cadeva da 35 a 19 milioni di sterline.
Anche altri rami dell'industria e specialmente quello della
metallurgia cominciarono a trasformarsi in conseguenza dello sviluppo della nuova tecnologia meccanica. Solo che, a fronte dei risultati positivi come l'aumento della produzione e la diminuzione dei costi, sta il fatto che la trionfale espansione dell'industria moderna venne accompagnata metodicamente da una concentrazione, nelle città industriali, di un proletariato miserabile, e il problema del pauperismo assunse delle forme nuove e ancora più gravi.
Gli operai ritennero sempre, in quel tempo, che l'introduzione delle macchine facesse pesare su di loro una concreta minaccia di disoccupazione e si sforzarono quindi di ostacolare e di impedire l'avvento del macchinismo. La prime jennies di Hargreaves furono fatte a pezzi dagli operai. Nel 1779 parecchi filatoi meccanici furono presi d'assalto nella contea di Lancaster e furono distrutti.
Anche se il movimento denominato "luddismo" si limitò ad esprimersi in azioni di distruzioni delle macchine, in effetti rappresentava una
rivolta di portata più generale contro il regime sociale esistente. Ma il guadagno dei salariati dell'industria era comunque, almeno all'inizio, più cospicuo di quello dei operai agricoli, e perciò la creazione delle fabbriche
attrasse grandi masse di lavoratori verso i centri industriali. Nulla però era stato preparato per riceverli, e le condizioni d'alloggio della mano d'opera furono miserabili e deplorevoli". (1)
"L'epicureismo si basa su una
interpretazione materialista della natura che prende le distanze
dall'impostazione antiplatonica della metafisica.
Epicuro nega che possano
esistere realtà diverse da quelle riconducibili alla materia piena (atomi) e al
vuoto in cui la materia incessantemente si muove (spazio). [...] E' ... da
escludere che possano esistere in una qualsiasi forma entità puramente
concettuali, come le idee platoniche, o valori indipendenti dal tempo e dal
fluire della materia.
Su questi principi Epicuro riconduce lo studio
dell'etica al piacere e al dolore e abbandona quindi ogni possibile etica dei
valori, cioè l'idea che il comportamento umano debba conformarsi a principi
validi in sé e intrinsecamente buoni, principi che l'uomo sia impegnato
moralmente a rispettare. Semplicemente nega che simili principi esistano e nega
conseguentemente che l'uomo sia soggetto a doveri morali. L'uomo è davvero
libero, nel senso che non si danno valori oggettivi a cui deve
uniformarsi.
Nell'universo non c'è alcuna ragione morale, non ci sono un bene
e un male oggettivi.
Ci sono soltanto esseri che soffrono ed esseri che
godono, e la struttura della sensibilità spinge ciascun vivente a godere e a
fuggire la sofferenza.
L'epicureismo è stata una delle dottrine etiche più
importanti nell'antichità prima dell'avvento del cristianesimo ed ha svolto
insieme ad altre correnti filosofiche dell'ellenismo la funzione di guida
dell'azione morale. Il Cristianesimo però condanna l'utilitarismo perché vede in
questa dottrina il rifiuto di ogni valore e quindi di ogni morale. Con il
Cristianesimo prevale infatti l'idea che si possa costruire una morale solo sul
fondamento di valori oggettivi, cioè di un bene e di un male assoluti.
Per
questo motivo le dottrine utilitariste vengono assimilate alle dottrine atee".
(2)
"Nell'antichità greca il pensiero economico non aveva una sua
autonomia: esso era costituito da osservazioni e precetti reperibili nelle opere
dei grandi filosofi - in Platone e Aristotele per esempio - ma anche in opere
letterarie come le storie di Tucidide e le commedie di Aristofane. Filosofi,
storici, letterati greci discutevano nelle loro opere soprattutto della vita
"buona", dello stato "giusto" dell'uomo "felice" e poiché erano convinti che il
denaro non dava né saggezza né felicità, essi si preoccupavano di suggerire non
il modo per aumentare la ricchezza, ma il modo per subordinare l'attività
economica alle finalità morali, per frenare l'istinto del
guadagno.
Aristotele ad esempio espose con grande chiarezza la distinzione -
che diverrà poi fondamentale nella scienza economica - fra valore di scambio e
valore d'uso, ma lo scopo della distinzione era chiaramente quello di dare un
giudizio etico di preferenza rispetto allo scambio. [...] Paradossalmente si
può dire che i pensatori greci arrivarono alla scoperta di numerose leggi
economiche proprio perché non credevano che quelle leggi fossero benefiche per
l'ordinata vita sociale. Essi erano "volontaristi" cioè erano convinti che
l'ordine economico razionale non fosse il frutto dell'azione istintiva, bensì
della ragione umana, capace di opporsi agli istinti, in particolare all'istinto
del guadagno. In questo quadro concettuale il pensiero economico non poteva
emergere come etica applicata, cioè come criterio per distinguere e valutare,
dal punto di vista morale, il comportamento degli uomini in fatto di
appropriazione dei beni, rapporti commerciali, di lavoro, ecc.
Anche il pensiero economico medioevale segue un'impostazione analoga. Esso non
rappresenta un campo autonomo di ricerca, ma una riflessione teologica
sull'attività economica e sulle sue conseguenze morali. [...] E' dal
messaggio evangelico che gli scrittori medioevali derivano l'affermazione che
l'attività economica è attività morale, capace di avvicinare o allontanare
l'uomo dal suo destino eterno e quindi suscettibile di valutazione. [...]
Ovviamente la pratica medioevale differiva spesso dagli insegnamenti dei
moralisti.
I mercanti delle corporazioni non sempre si trattavano come
fratelli, i lavoratori non sempre ricevevano un salario sufficiente ai bisogni
di sussistenza delle loro famiglie; la Chiesa stessa non sempre corroborava con
l'esempio i precetti dettati - in campo economico - dai suoi teologi."
(3)
"Il salto qualitativo apparve in tutta la
sua evidenza nel 1776 con la pubblicazione dell'opera di Adam Smith: "Indagine
sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni"; ma il processo dal quale
emerse la scienza economica fu un processo lento, quasi completamente
inavvertito dai contemporanei, tuttavia continuo e irreversibile, che si svolse
dalla metà del XVII alla metà del XVIII secolo e fu caratterizzato non tanto dal
rinnovamento del contenuto dell'indagine economica quanto dal rinnovamento del
metodo.
Furono generalmente cultori di altre discipline - medici, astronomi,
matematici, fisici, filosofi - che, venuti per circostanze diverse a contatto
coi problemi di politica economica del loro tempo, si dedicarono agli studi
economici con l'abito mentale che il rinnovamento già in atto nelle scienze
naturali e nella filosofia, aveva loro conferito.
Il rinnovamento del
pensiero economico poggia quindi su un rinnovamento del pensiero scientifico e
del pensiero filosofico che era avvenuto nei primi due secoli dell'epoca moderna
ad opera di Niccolò Copernico, di Galileo Galilei e di Isac Newton per le
scienze fisiche, di Francesco Bacone e di René Descartes per la
filosofia.[...]
I ragionamenti dei nuovi economisti non sempre erano più
corretti o sistematici di quelli dei loro predecessori, ma l'abitudine alla
speculazione astratta, che deriva dalla loro formazione culturale, li portava
abitualmente ad affrontare vecchi problemi con nuovi schemi mentali. Mentre i
mercantilisti, richiamandosi ai fatti o all'autorità degli scritti del passato
si preoccupavano di persuadere i loro lettori che un certo comportamento dei
soggetti economici, ed in particolare dello Stato, avrebbe prodotto effetti
vantaggiosi, i "nuovi economisti" si preoccupavano di scoprire "perché" tali
effetti si producono, di individuare, nell'ambito delle premesse generali, le
relazioni necessarie che legano le cause agli effetti.
Il loro intento è di
scoprire quelle che essi considerano le "mirabili leggi naturali" che "devono
regolare anche l'attività economica", come regolano la circolazione del sangue,
la caduta dei gravi, la traiettoria degli astri, la crescita delle piante. La
scienza economica nasce quindi fra il Seicento e il Settecento non a caso, ma
perché in quel momento storico esistevano condizioni particolari, nella
conoscenza scientifica e nella speculazione filosofica, che si prestavano ad
essere utilizzate anche in campo economico. [...]
Certamente non va
dimenticato che per più di un secolo le "leggi economiche" sono state
considerate "scientifiche" in quanto "naturali, cioè spontanee e benefiche, e
che in base a questa considerazione la scienza economica è stata - indebitamente
- posta al servizio del sistema produttivo esistente; ma per fortuna oggi nessun
economista è disposto a considerare "naturale" e quindi necessario e immutabile
qualsiasi sistema storico di produzione.
La ricerca scientifica può nascere e
svilupparsi sotto il peso di condizionamenti sociali, ideologici, economici,
polititici; tali condizionamenti vanno tenuti presenti, ma non devono farci
dimenticare il valore conoscitivo dei risultati
raggiunti." (4)
"Sin dal 1562, vigeva in Inghilterra un sistema di assistenza ai poveri che
si basava su soccorsi distribuiti dalle parrocchie a quanti erano incapaci di
lavorare o erano disoccupati. Un sistema siffatto veniva finanziato con un tipo
speciale di imposta, la cosiddetta "tassa dei poveri". Nel XVII secolo, poi, le
parrocchie vennero autorizzate a creare delle case di lavoro, o workhouse, nelle
quali i poveri erano invitati o costretti ad entrare.
Ambedue i sistemi
costavano caro, e tuttavia erano ben lungi dal risolvere il problema.
Le
workhouses corrispondevano, in sostanza, a degli infami bagni penali, e i
soccorsi a domicilio, legando strettamente gli indigenti ad una determinata
parrocchia, privavano praticamente i poveri delle loro più elementari
libertà.
Le teorie di Godwin, però, indussero a rivendicare una
generalizzazione dell'assistenza ai poveri. Fu proprio sotto la sua influenza,
infatti, che nel 1795 venne adottata in Francia una Dichiarazione dei diritti,
che contemplava, fra gli altri, il seguente articolo: "Ogni cittadino che è
incapace di provvedere ai propri bisogni ha diritto all'assistenza dei suoi
simili".
La formulazione del diritto all'assistenza era in netto contrasto
con le più esplicite e formali tesi di Smith. Per il grande economista la legge
dei poveri era semplicemente disastrosa in quanto impediva la libera
circolazione della mano d'opera e determinava delle differenze salariali che,
generalmente, finivano per danneggiare gli interessi operai.
Un simile
argomento, tuttavia, poteva anche non riuscire sino in fondo convincente.
Malthus, appunto, fu l'economista che si impegnò, ad un tempo, a confutare il
sistema di Godwin e a difendere e ribadire quello di Smith, dimostrando come la
tendenza alla sovrappopolazione, intrinseca alla specie umana, determini
l'ineguaglianza e impedisca di ammettere e di riconoscere il diritto
all'assistenza.
(5)Le tesi fondamentali del "Saggio sul principio di popolazione"
"Con
grande consapevolezza, Malthus si propone un obiettivo ben preciso: quello di
giustificare l'ordine liberale fondato sulla proprietà e quindi, con esso,
l'ineguaglianza sociale.
Smith aveva dimostrato che la libertà era il mezzo
migliore per accrescere la ricchezza di una nazione e aveva ammesso, del resto
in modo piuttosto implicito, che di un simile arricchimento finivano per trarne
giovamento quasi tutti i cittadini.
Malthus sottolinea invece che la
ricchezza può aumentare senza che per questo migliori la situazione di ogni
singolo individuo. Anzi, un miglioramento siffatto non può assolutamente
verificarsi se il numero dei membri della società cresce altrettanto e più
rapidamente della quantità dei beni disponibili per la soddisfazione dei loro
bisogni.
Ora, proprio in base a questa considerazione, egli sostiene poi che
il regime liberale e l'ineguaglianza sociale che ne deriva consentono di
migliorare le sorti di una parte almeno dei cittadini poiché determinano una
limitazione alla spinta demografica.
Al contrario, un regime di comunanza dei
beni e di uguaglianza dei beni ridurrebbe fatalmente, secondo Malthus, tutti gli
uomini alla miseria.
La dimostrazione di questa tesi è assai semplice e
consiste nel porre a confronto da un lato quella che Malthus considera come la
"legge naturale" della crescita della popolazione e, dall'altro, le condizioni
del massimo sviluppo possibile delle produzioni alimentari:
"Possiamo ritenere certo che la popolazione, se non viene ostacolata in alcun modo nel suo
sviluppo, si raddoppia ogni 25 anni e cresce , di periodo in periodo, secondo
una progressione geometrica."
Egli intende dire, insomma, che, tenuto
conto della fecondità delle coppie e del grado normale di mortalità, gli uomini
si raddoppiano ogni 25 anni, quando possono sposarsi non appena loro piaccia e
quando siano capaci, in ipotesi, di nutrire i loro figli.
Si può senz'altro
ipotizzare invece che la produzione dei mezzi di sussistenza non possa seguire e
non segua la medesima legge. [...]
Malthus, dunque, formula qui quella che
più tardi chiamerà la "Legge dei rendimenti decrescenti" dei terreni. Ma a
questo stadio della sua ricerca la definisce ancora nei seguenti termini:
"Siamo in grado di affermare [...] che i mezzi di sussistenza, anche
nelle circostanze più favorevoli alla loro produzione, non possono mai aumentare
più rapidamente che secondo una progressione aritmetica".
[...]
In effetti l'economista inglese è portato a concludere, sulla base di quel contrasto, che una popolazione il cui comportamento matrimoniale e sessuale non
venga in alcun modo controllato e frenato è destinato a rimanere sempre
miserabile. Non vi può essere mai, invero, il nutrimento sufficiente per tutti
coloro che nascono, di maniera che , mentre la società è condannata nel suo
insieme alla miseria, l'estrema povertà s'incarica poi d'uccidere quanti non
possono essere nutriti.
Si apre così il problema di sapere se non vi siano
altri mezzi, meno insopportabili della miseria, per limitare lo sviluppo della
popolazione.
Si potrebbe innanzitutto pensare a delle misure legislative, che
vengano a stabilire, procrastinandola il più possibile, l'età idonea per il
matrimonio. Malthus, però, afferma senz'altro che una simile legislazione non
può neppure essere ipotizzata, poiché sarebbe inapplicabile: "Chi si
incaricherebbe di farla eseguire e come si potrebbe provarne la violazione? Si
dovrebbe forse imprimere un marchio d'infamia o si dovrebbe mostrare a dito
chiunque avesse contratto matrimonio precoce? Oppure lo si dovrebbe condannare
alla fustigazione o a parecchi anni di galera? E i suoi figli li si dovrebbe per
caso considerare dei trovatelli? In realtà tutti i castighi che potrebbero
essere escogitati per un delitto di questa specie, non appaiono subito
intollerabili e contrari alla natura?"
[...] Nelle successive
edizioni della sua opera, e sin dal quella del 1803, Malthus si affannò a
proclamare e a difendere i suoi intenti filantropici, sostenendo di non essere
affatto il nemico dei poveri e nemmeno l'avversario di un ragionevole incremento
della popolazione. (6)
La teoria sviluppata nel "Saggio sul principio di popolazione" può essere
considerata come un esempio, particolarmente probante, di quegli errori cui può
condurre una concezione naturalistica della società. Di fronte al Saggio di
Malthus, un problema si apre immediatamente. Parlare - come appunto pretende
l'economista inglese - di una legge naturale che regola lo sviluppo della
popolazione, significa puramente e semplicemente assimilare l'uomo ad un
organismo vegetale o animale, di cui si possono studiare in effetti le leggi di
riproduzione e di moltiplicazione.
Ma una tale assimilazione è davvero
possibile? Esiste effettivamente una legge naturale del processo demografico del
genere umano?
Se si esamina il Saggio di Malthus, ci si accorge subito che
l'economista non sa fornire alcun argomento valido per comprovare l'esistenza di
una simile legge. Certo, egli ci fa osservare, trattando delle vicende di
diversi popoli, che la pressione demografica determina, in parecchi casi, una
situazione di miseria. Ma questo non implica affatto che, presso tutte queste
nazioni, la popolazione tenda a svilupparsi seguendo una medesima legge. E'
indubbio invece che l'organizzazione sociale, i costumi, la religione
influenzano, in misura considerevole, sia i matrimoni sia la fecondità delle
coppie.
Anzi Malthus si trova persino di fronte a casi in cui deve constatare
una tendenza al regresso demografico e allo spopolamento, come appunto quello
dei romani dei primi secoli della nostra era. E, se egli attribuisce allora una
tendenza siffatta a delle "abitudini viziose" è anche troppo chiaro che questo è
un modo troppo sbrigativo per cercar di ridurre simili casi a delle eccezioni
che confermerebbero semplicemente la regola.
In realtà, per poter dimostrare
l'esistenza di una legge della popolazione, bisognerebbe essere in grado di
osservare l'uomo nel suo "stato naturale", e cioè in quello stadio che
precederebbe ogni forma di sistema sociale, e che venne appunto immaginato dai
filosofi del XVIII secolo. Ma tale impresa è assolutamente impossibile.
Di
fatto, anche presso i popoli primitivi, presso le tribù, ad esempio, degli
indigeni americani, Malthus si trova di fronte a dei costumi sociali, di cui del
resto ammette l'influenza (e anche grande influenza) sull'incremento della
popolazione.
Così egli riesce ad osservare e a prendere in considerazione il
fatto che l'abitudine delle tribù indiane di riservare alle donne i lavori più
duri ne limita gravemente la fecondità; disgraziatamente, però, non arriva per
questo a comprendere che è impossibile parlare di un'unica legge della
popolazione, proprio perché l'uomo vive sempre nel quadro di una determinata
organizzazione sociale.
In effetti, tutte le società, sin da quelle più
antiche , hanno adoperato diversi mezzi per limitare la crescita della
popolazione e, in primo luogo, quello che consiste nel rendere più difficili i
matrimoni imponendo a coloro che vogliono unirsi coniugalmente determinate
condizioni giuridiche e finanziarie.
Senza dubbio, quindi, è accaduto assai
spesso che i figli delle famiglie ricche o nobili hanno potuto sposarsi più
facilmente; e tuttavia sostenere che l'ineguaglianza è stata sempre la
condizione essenziale della limitazione dello sviluppo demografico, sarebbe
davvero una semplificazione indebita ed eccessiva di un insieme di fatti sociali
che sono invece estremamente complessi.
In ogni modo, quando passa ad
esaminare i fatti che ha sotto gli occhi, Malthus non può non constatare che la
popolazione tende a crescere troppo rapidamente. Anche questa volta, però, non
si accorge come un simile sviluppo dipenda, in larga misura, dal fatto che il
capitalismo distrugge le vecchie tradizioni sociali, da cui prima era regolata
la riproduzione della specie umana.
Il capitalismo sradica l'individuo, lo
priva del suo antico ambiente sociale, sia esso la famiglia patriarcale o
l'organizzazione del villaggio o la corporazione di mestiere, e non vi
sostituisce alcun'altra forma di vita associata. Il lavoratore, la cui forza
lavoro è una semplice merce, pagata miserabilmente, tende, è vero, ad assumere,
fuori dalla fabbrica o dall'azienda agricola, un modo di vita meramente animale;
ma è il capitalismo che lo condanna ad una simile forma di esistenza subumana. E
se Malthus non riesce a rendersi conto di questo fatto essenziale, è soltanto
perché, in conformità con la filosofia del suo tempo, ha adottato una concezione
naturalistica della realtà sociale.
La sua "legge della popolazione" è
appunto manifestazione peculiare e caratteristica di un simile
naturalismo.
Quanto poi alla sua condanna di ogni forma di controllo delle
nascite, è chiaro che vi è manifesta l'adesione di Malthus all'etica puritana,
che è l'espressione più rigoristica della morale del cristianesimo.
In
effetti il puritanesimo considera il piacere sessuale come un male in sé e
professa quindi un'etica assai diversa, e anzi opposta ai sistemi morali
dell'antichità che si limitavano ad affermare la superiorità dei piaceri
intellettuali su quelli fisici e a sostenere la necessità di obbedire a criteri
di moderazione sul piano della soddisfazione dei bisogni della vita corporea.
Per il puritanesimo, invece, il piacere del sesso è un male anche nel
matrimonio, e può essere ammesso solo quando viene direttamente strumentalizzato
al fine della procreazione.[...]
In questa parte della sua opera, Malthus
parla come cristiano e come prete.
Ma quest'ecclesiastico, questo pastore,
pone una cura tutta particolare nel non apparire nemico della ragione, e un tale
sforzo per conciliare ragione e fede dà sfumature e toni del tutto particolari
alle tesi e alle dichiarazioni di principio di questo singolare
economista.[...]
Che cosa è dunque il mondo? E' un processo voluto da Dio
per la creazione e la formazione dell'intelligenza: "Un processo per risvegliare
la materia inerte e caotica e trasformarla in una realtà spirituale, per
sublimare insomma il fango della terra e trarne l'anima." Ma perché l'uomo possa
esercitare, e perciò sviluppare la propria intelligenza, occorre che sia spinto
al lavoro dalla necessità di soddisfuioare ai suoi bisogni: "Il tempo libero
ha senza dubbio un gran valore per l'uomo; ma se consideriamo l'essere umano,
per quello che è, risulterà senza dubbio chiaro che, nella maggioranza dei casi,
il tempo libero potrà produrre piuttosto del male che non del
bene."5>
Né Malthus si arresta a questa prima considerazione e aggiunge
ancora:
"Sulla base di quanto ci ha insegnato l'esperienza a proposito
della natura umana, abbiamo buone ragioni per ritenere che, ove venissero a
mancare quegli incentivi all'azione che provengono per la gran massa degli
uomini dai bisogni del corpo, gli uomini stessi cadrebbero a livello dei bruti,
per la mancanza di ogni spinta al lavoro, piuttosto che non elevarsi alla
dignità dei filosofi, grazie alla fruizione del tempo libero."
E'
facile riconoscere, in queste tesi, la concezione puritana della vita, così
opposta a quella degli antichi. Ma nell'ultimo capitolo del suo "Saggio",
Malthus si spinge ancora più in là, poiché afferma che la stessa "infelicità" (e
non più soltanto il bisogno e il lavoro) costituisce una molla indispensabile
per lo sviluppo dell'essere umano:
"I dolori e le sventure costituiscono
un'altra categoria di incentivi, che sembrano essere necessari... per
ingentilire e rendere più umano il cuore, per risvegliare sentimenti di simpatia
sociale, per ingenerare tutte le cristiane virtù e per fornire l'occasione,
infine, di esercitare ampiamente la generosità verso il prossimo."
Questo però è solo il primo argomento. Il secondo, ancor più singolare, è
che il vizio deve esistere per eccitare le anime alla virtù, grazie appunto a
quel "senso di vuoto" e a quella "riprovazione del male" che le anime stesse non
possono non provare:
"Sembra oltremodo probabile che il vizio sia
assolutamente necessario alla produzione dell'eccellenza morale."
Malthus, forse, esprime proprio in questo passo il fondo del suo pensiero.
Si tratta, in definitiva, della concezione di un prete, la cui teologia è messa
a dura prova dalla filosofia illuministica, e che quindi, per poter riaffermare
la propria fiducia nell'etica tradizionale, non sa trovare altri mezzi se non
quello di accentuarne, sino all'assurdo il carattere pessimistico.
Malthus
dichiara singolarmente, tra l'altro, che non vuol pronunziarsi in merito alla
questione se lo spirito sia diverso dalla materia:"Dopo tutto il problema è
forse semplicemente una questione di parole. Lo spirito è essenzialmente
spirito, anche se si forma dalla materia o da qualche altra cosa consimile."
Già qui, dunque, l'imbarazzo del teologo è manifesto. Ma risulta ancor
meglio da un passo in cui l'autore dichiara che gli è impossibile di credere
all'inferno. Questo testo, però, è particolarmente importante per la
comprensione del pensiero di Malthus, poiché ci permette di vedere come la
convinzione della necessità della miseria sociale venga a sostituire,
nell'economista inglese, la credenza nell'inferno:
"E' del tutto impossibile
ammettere che una delle creature uscite dalle mani di Dio possa essere
condannata a una sofferenza eterna.
Se veniamo ad ammettere, anche una sola
volta, una simile idea, tutte le nostre concezioni sulla bontà e la giustizia
andranno completamente distrutte, e noi non potremo più considerare Dio come un
essere misericordioso e benevolo. Nondimeno, la dottrina della vita e
dell'immortalità, che ci è stata rivelata dal vangelo, questa dottrina per cui
il fine stesso della giustizia sta nella vita eterna, e per cui invece la morte
è compenso del peccato, ci dimostra, fuor da ogni dubbio, come assolutamente
giusta e degna dell'onnipotente Iddio che ci ha creati. Ora, nulla può sembrarci
più conforme alla nostra ragione dell'idea che quegli esseri i quali nascano dal
processo creatore del mondo con belle e amabili forme, debbano essere coronati
dall'immortalità, mentre coloro che nascano deformi e i cui spiriti non siano
adatti ad una condizione più pura e più felice, debbano morire per sempre e
essere condannati a confondersi di nuovo con il fango originario.
Una eterna
condanna di questo tipo può ben essere avvertita come una sorta di castigo
eterno, né può sorprendere che talvolta sia stata raffigurata attraverso delle
immagini di sofferenza: sta di fatto, però, che nel Nuovo Testamento, la vita e
la morte sono rispettivamente collegate alla salvezza e alla distruzione, assai
più spesso che non sia contrapposta la felicità alla miseria. Ma ne consegue
anche, allora, che quelle parziali sofferenze, le quali ci vengono inflitte dal
supremo Creatore, nell'atto stesso in cui vien preparando innumerevoli esseri a
divenir capaci delle gioie più alte, sono semplicemente della polvere al vento,
in paragone alla felicità che ne può venir generata.
Non abbiamo perciò
ragioni sufficienti per ritenere che vi sia nel mondo più male di quanto non sia
necessario a servir da ingrediente nel processo della creazione."
Se interpretiamo bene questo testo alquanto faticoso, ci sembra si possa
sostenere che per Malthus l'inferno non esiste e che il cielo resta l'eterna
dimora degli esseri destinati alla felicità, mentre gli uomini scarsamente
dotati, e che quindi non possono pretendere una vita futura, sono giustamente
colpiti, nel corso della loro breve esistenza terrena, dalle sventure e dalla
miseria.
Sino al termine della sua vita, Malthus, pronunciò ogni domenica dei
sermoni molto edificanti.[...]Che cos'è infatti l'uomo per Malthus? Se è
povero è un animale, preda dei suoi istinti immediati e soprattutto di quello
sessuale. E se invece è ricco, se è un proprietario? E' allora soltanto un
automa, che agisce meccanicamente, in vista sempre del suo chiuso e personale
interesse.
Malthus, in realtà, aderisce pienamente alla concezione
utilitaristica del comportamento umano. E su "su questi bei fondamenti" un
autore può parlare a ogni pagina di Dio e della virtù: ciò non gli impedisce di
aderire ad una visione del mondo quanto mai lontana da qualsiasi spiritualismo
autentico." (7)
"Malthus fu un deciso sostenitore degli interessi dei proprietari fondiari,
ed invocò a questo scopo la cosiddetta "Legge dei compensi decrescenti", secondo
la quale un capitale investito nella terra non porta un uguale aumento di
produttività: raddoppiando la somma investita in un fondo, non si ottiene di
regola un raddoppiamento della produzione agricola. L'incremento della
popolazione ha un ritmo molto rapido sicchè Malthus affermò che la terra sarebbe
presto divenuta insufficiente e formulò la famosa legge secondo cui l'indice
demografico aumenta in progressione geometrica, quello della produzione agricola
in progressione aritmetica.
Malthus predicava quindi il controllo demografico
e fece una rozza analisi di mezzi che potevano attuarlo, dividendoli in due
categorie: repressivi (che aumentano l'indice di mortalità: epidemie, guerre,
carestie, etc.) e preventivi (che diminuiscono l'indice di natalità - vizio ciò
appagamento sessuale irregolare: adulterio, sodomia, etc. - e
"moralità").
Prevenzione "morale" per Mathus significava predicare ai poveri
che se non potevano mantenere i figli era meglio non si sposassero; inculcare
loro l'astinenza sessuale e il senso del peccato; abolire le leggi sulla carità
pubblica, perché il lenire le miserie dei poveri significa spingere a
riprodursi. La sua tesi è riassunta da questo passo: "chiunque nasce in un mondo
già oggetto di appropriazione privata e non ritragga i mezzi di sussistenza né
dai propri genitori né dal proprio lavoro, non ha alcun diritto di essere
mantenuto; in realtà egli è inutile in questo mondo. Alla gran mensa della
natura non c'è alcun piatto che lo attende. La natura gli comanda di andarsene e
non tarda a mettere in esecuzione il suo ordine." Del proprio stato di miseria,
i disoccupati devono insomma accusare non la proprietà privata della terra o dei
mezzi di produzione industriale, ma la natura o la lussuria dei propri genitori
che non hanno hanno resistito alla "tentazione" di aver rapporti sessuali.
L'opera di Malthus è priva di rigore scientifico, come appare anche dal fatto
che egli stesso si è ampiamente contraddetto nello scritto "Pinciples of
political economy" (Principi di economia politica).
Ancora una volta il suo
scopo è di difendere gli interessi dei proprietari terrieri e per far questo si
ricollega alla distinzione ricardiana tra consumo produttivo e consumo
improduttivo. Ricardo come si è visto, aveva commesso l'errore di credere che
una costante accumulazione di capitali non potesse portare in alcun caso ad una
crisi di sovrapproduzione. Malthus (e su questo punto aveva ragione) negò questo
principio, dichiarando che la produzione si reggeva solo sulla domanda
effettiva, cioè su di una richiesta del mercato tale da consentire al
capitalista il recupero del capitale investito con l'aggiunta di un profitto. Ma
- egli osservò - il capitalista non può sperare di vendere la globalità dei
propri prodotti al salariato giacchè questi, per definizione, guadagna solo lo
stretto necessario per vivere, e perché la somma totale dei salari è sempre per
definizione (essendo il profitto lavoro non pagato) inferiore alla somma totale
delle merci offerte sul mercato.
Per sostenere la domanda effettiva e
incentivare la produzione occorre quindi favorire la rendita, cioè il consumo
improduttivo, scambiato non contro capitale ma contro reddito.
Oltre ai
proprietari fondiari, occorre un gran numero di coloro che già Smith aveva
definito parassiti: ecclesiastici, avvocati, soldati, domestici giudici, etc.; i
loro lussi sono assolutamente necessari alla società.
Conclusione:
il pensiero di Malthus è quello che il proletariato che lavora va
sfruttato e deve praticare il celibato mentre i consumatori improduttivi vanno
difesi e incoraggiati. Estremamente preciso risulta il seguente passo di Marx:
"Ciò che caratterizza Malthus è la fondamentale volgarità dei sentimenti,
volgarità che può permettersi soltanto un prete che riconosce nella miseria
umana la punizione del peccato originale che in generale ha bisogno di "questa
valle di lacrime", ma che nello stesso tempo per riguardo alle prebende di cui
gode e con l'aiuto del dogma della predestinazione, trova assolutamente
vantaggioso "addolcire" alle classi dominanti il soggiorno in questa valle di
lacrime." (8)
"Per Malthus, uomo di rigida morale puritana, l'uomo ragionevole e
moralmente responsabile non ha di fronte a sé che una scelta per evitare la
"crudele azione" dei freni repressivi: "la virtuosa astensione" - secondo le sue
parole - o almeno il ritardo nel contrarre matrimonio.
Nel "Saggio" Malthus
forniva una teoria fragile, viziata dall'eccesso di "semplificazione e di
generalizzazione" che - qualche decennio dopo, nella prefazione del suo trattato
di economia - egli stesso rimprovererà agli economisti suoi contemporanei.
In
realtà l'esperienza storica ha mostrato che Malthus da un lato sottovalutava la
possibilità di crescita dei mezzi di sussistenza che il progresso tecnico
avrebbe consentito, dall'altro sopravvalutava il fattore biologico in un campo,
quello della riproduzione umana, in gran parte soggetto a fattori
culturali.
Tuttavia la fragile teoria di Malthus ebbe un gran successo: in
un'epoca imbevuta di naturalismo, essa forniva una spiegazione "naturale" della
povertà; offriva - indipendentemente dalla volontà del suo autore - un comodo
alibi da opporre alle tendenze rivoluzionarie o riformiste insite nelle dottrine
di derivazione illuminista, che individuavano nelle strutture istituzionali i
mali della società."(9)
"Nel suo "Saggio sul
principio della popolazione" del 1798 [...] T. Malthus descrisse la
"necessità" del genocidio sistematico. Si noti come la tendenza genocida resta
la caratteristica invariante dell'empirismo britannico di allora e di oggi.
Tutti i bambini nati in eccesso rispetto a ciò che sarebbe necessario al
mantenimento della popolazione a questo livello (definito in rapporto al totale
delle risorse arbitrariamente ritenute fisse? ndr) debbono necessariamente
perire, a meno che per loro non sia fatto posto dalla morte di persone
adulte.
Per questo occorre facilitare e non prodigarsi inutilmente e
stupidamente a ostacolare quelle operazioni della natura che producono quella
mortalità; e se temiamo le troppo spesso ricorrenti visite delle forme orrende
della fame, noi dobbiamo assiduamente incoraggiare le altre forme di distruzione
che noi costringiamo la natura ad usare. Invece di raccomandare l'igiene ai
poveri, dobbiamo incoraggiarli ad abitudini opposte.
Nelle nostre città
dobbiamo costruire le strade più strette, sovraffollare le case con più persone
e sollecitare così il ritorno della peste. In campagna dobbiamo costruire nei
pressi delle acque ristagnanti ed incoraggiare particolarmente gli insediamenti
in zone palustri ed insalubri.
Ma soprattutto dobbiamo deprecare i rimedi
specifici contro l'esplodere delle malattie e quelle persone bene intenzionate,
ma che errano grandemente, che credono di rendere un servizio all'umanità
ideando dei sistemi per eradicare completamente i particolari
disordini." (10)
"Esiste,
tra i vari individui, una continua e tenace lotta per l'esistenza; il loro
numero infatti tende a crescere in progressione geometrica, cioè assai più di
quanto non crescano le risorse dell'ambiente: Nascendo un numero di individui
superiore a quello che può vivere - scrive Darwin - deve certamente esistere una
seria lotta per l'esistenza, sia fra gli individui della medesima specie, sia
fra quelli di specie diverse, oppure contro le condizioni fisiche della vita.
Questa è la dottrina di Malthus, applicata con maggior forza a tutto il regno
organico; perché in questo caso non è possibile un aumento artificiale di
nutrimento, né alcun prudente ritegno dal matrimonio."
In questa
situazione sorge spontanea la domanda: quali organismi sopravviveranno? Sempre
secondo Darwin, la risposta più spontanea e generale non può essere che la
seguente: : sopravviveranno i meglio adatti alle condizioni di vita in cui si
trovano. Con un'ardita personificazione della natura, questa sopravvivenza del
più adatto fu chiamata "selezione naturale" quasi che sia la stessa natura a
prescegliere per la riproduzione gli individui che di fronte agli altri hanno
qualche vantaggio. Per essere più precisi: ogni qualità utile alla lotta ha
"valore di sopravvivenza" cioè pone il suo possessore in posizione di vantaggio
rispetto ai concorrenti (in quanto la possiede, egli potrà vivere più a lungo e
allevarsi un maggior numero di discendenti). I figli di detto individuo
riusciranno, a loro volta ad ereditare la qualità utile alla lotta posseduta dal
genitore, ed anzi l'accentueranno sempre più onde verranno a trovarsi in
condizioni via via più privilegiate rispetto agli individui della loro medesima
razza che non la posseggono. Accadrà pertanto che questi ultimi risulteranno
poco a poco eliminati, e le qualità aventi "valore di sopravvivenza" finiranno -
col trascorrere dei secoli - per diffondersi naturalmente tra la razza in esame:
essa si trasformerà lentamente ma inevitabilmente, e potrà dar luogo ad una
razza nuova e diversa." (11)
"Alla base della fede nazista nelle leggi
razziali come espressione della legge della natura nell'uomo vi è l'idea darwiniana
dell'uomo come prodotto di un'evoluzione naturale che non si arresta necessariamente
alla presente specie di esseri umani; alla base della fede nella lotta di classe
come espressione della legge della storia vi è la concezione marxista della società
come prodotto di un gigantesco movimento storico, che corre con rapidità sempre
maggiore verso la sua fine, verso il momento in cui si annullerà come storia.
E' stato spesso posto in rilievo la differenza fra l'approccio storico di Marx e
naturalistico di Darwin, di solito e giustamente in favore del primo. Ciò ha fatto
dimenticare che Marx provava un grande sincero interesse per le teorie di Darwin,
e che Engels riteneva di fare il massimo complimento all'amico defunto chiamandolo
il "Darwin della storia". (12)
"John Stuart Mill e Karl Marx si trovarono ad osservare la stessa realtà
economica, una realtà nella quale la classe industriale e commerciale aveva già
conquistato la supremazia nei confronti dell'aristocrazia terriera, e il
proletariato - sebbene privo del diritto di voto - mostrava nuovi segni di
risveglio politico e di associazionismo sindacale.
J.S. Mill (1806-1873)
filosofo, economista, uomo politico, fu una figura tipica dell'establishment
intellettuale inglese del suo tempo. Sulla sua formazione influirono decisamente
Bentham e Ricardo, amici intimi del padre , l'economista James che aveva fondato
la "Utilitarian Society" e la "Westminster Rewiew" i centri del radicalismo
filosofico e della cultura utilitarista. Ma John Stuart fu anche affascinato dai
nuovi movimenti eterodossi, che esprimevano - ancora confusamente - i fermenti
sociali che la sua epoca inquieta portava alla ribalta: l'utopismo di Owen e
Saint-Simon, il socialismo ricardiano di Thompson, il romanticismo di Carlyle,
il femminismo delle suffragette.
L'edificio scientifico di Mill - meno
rigoroso di quello di Ricardo e meno ricco di spunti analitici di quello di
Malthus - è storicamente rilevante perché è un'opera di transizione. Dal punto
di vista politico-economico Mill rappresenta il compromesso fra liberalismo da
una parte e il riconoscimento delle esigenze di giustizia dall'altra. Quella di
Mill è una posizione che talvolta può apparire incoerente, ma che ebbe grande
influsso sul pensiero e sull'azione politica della seconda metà dell'Ottocento.
Il pensiero economico inglese passa attraverso Mill per arrivare a Marshall, a
Pigou e a Keynes. Va ricordato che il trattato di Mill fu il testo usato ad
Oxford fino al 1919.
Il pensiero politico inglese passa attraverso Mill e i
cartisti, per arrivare ai fabiani e ai laburisti." (13)
[...] "Onestà e incertezza può venire riscontrata nell'etica di Mill. Da
un lato, infatti, egli si sforza di mantenere fede al principio utilitaristico
di Bentham, dall'altro sente la necessità di integrarlo con alcuni principi
tratti dall'individualismo romantico.[...]
Mentre Bentham pareva non
rendersi conto - nel suo bilancio aritmetico dei piaceri - che per l'individuo
umano la felicità degli altri è qualitativamente diversa dalla propria, Mill
comprende con perfetta chiarezza questa diversità e dichiara francamente che
essa costituisce un problema di cui bisogna riuscire a trovare una soluzione.
Egli ritiene di poter spiegare la capacità dell'individuo di sacrificarsi per
gli altri come effetto di un sentimento morale, e non si rende conto che proprio
l'esistenza di tale sentimento accanto all'istinto egoistico costituisce il
punto più difficile della questione.
Invece di affrontarlo in tutta la sua
gravità , egli si limita a dirci che non è un sentimento innato, bensì un
prodotto della vita sociale che, abituando gli individui ad avere interessi
comuni, li "educherebbe" a superare il proprio egoismo.
Comunque sia, Mill
ricava dal sentimento morale il dovere del rispetto per l'indipendenza e dignità
di tutti gli individui, e ne fa la base non solo della sua concezione etica, ma
anche di quella economico-politica che, senza diffonderci su di essa, venne
considerata per molti decenni come la più elevata espressione del liberalismo
democratico e progressista non solo in Inghilterra ma in tutta l'Europa.Va però osservato che si tratta di un liberalismo tutt'altro che insensibile alle
ingiustizie della società del suo tempo. Qui di nuovo Mill si distacca
profondamente dalla pura e semplice tradizione trasmessagli dai precedenti
teorici della concezione liberale; se non aderisce in modo esplicito al
movimento socialista, è soltanto per timore che il socialismo non riesca a
salvaguardare interamente la libertà. La scelta fra individualismo e socialismo
dovrà dipendere "da un'unica considerazione, cioè da quale dei due sistemi si
concilii con la massima somma possibile di libertà e di spontaneità
umana". (14)